Il Rapporto «Terzjus» mostra l’evoluzione giuridica e culturale degli enti di utilità sociale e senza scopo di lucro
La riforma del Terzo settore, in vigore dal 2017, ha formalmente riconosciuto, e così attribuito dignità legislativa, a un insieme vasto e variegato di organizzazioni che condividono il medesimo obiettivo: perseguire, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. La riforma non si è tuttavia limitata a fotografare l’esistente, ma ha cercato di tracciarne alcune possibili linee evolutive, individuate sulla base di tendenze già in atto o di prospettive di sviluppo auspicate, durante il suo iter di approvazione, dai principali stakeholder, i portatori d’interessi. Così, accanto a vincoli inevitabili in ragione delle agevolazioni di cui sono destinatari, vi sono anche, nella legislazione di riforma, numerose opportunità concesse agli enti del Terzo settore. Esse non concernono soltanto gli aspetti tributari o di relazione con gli enti pubblici (che sono i più noti e pubbliciz-zati), ma anche i profili più squisitamente organizzativi.
In questo senso, la riforma potrà dare impulso – e i primi segnali di questo processo sono colti nel 1° Rapporto di Terzjus che viene presentato oggi a Roma – a una nuova fase ‘creativa’ che potrà culminare nella riorganizzazione del settore su nuove e più solide basi. Un fattore evolutivo è innanzitutto rappresentato dalla stessa istituzione, a livello legislativo, dell’insieme organizzativo denominato ‘Terzo settore’. L’alluvionale legislazione speciale degli anni 90 dello scorso secolo aveva infatti, com’è noto, frammentato questo mondo, contribuendo a una sua ingiustificabile disarticolazione interna. Né la pur meritoria disciplina delle Onlus, data la sua natura essenzialmente fiscale, era riuscita a invertire o contenere questo processo. Oggi, invece, il Terzo settore è un ‘complesso di enti’ che ospita al suo interno organizzazioni di diversa natura, come ad esempio le ‘organizzazioni di volontariato’, la cui azione è prevalentemente gratuita, e le ‘imprese sociali’, che al contrario agiscono secondo logiche imprenditoriali.
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Nella ‘casa comune’ del Terzo settore potranno inoltre essere accolte ‘nuove’ tipologie di enti ignorate dalla legislazione preesistente, benché da tempo socialmente tipiche, come ad esempio gli ‘enti filantropici’, il cui obiettivo prevalente è promuovere o finanziare attività di interesse generale svolte da altri enti, e le ‘reti associative’ quali organismi di promozione, tutela e rappresentanza degli enti del Terzo settore. La prospettiva della nuova legislazione è dunque quella della ‘unità nella diversità’, ben rappresentata dall’esistenza di un Registro unico e nazionale (il Runts), suddiviso però al suo interno in sette sezioni, tante quanto sono, attualmente, le tipologie ammesse e riconosciute di enti del Terzo settore. L’unità potrà favorire il ‘dialogo’ tra soggetti che sono tra loro ‘diversi’ soltanto per il differente modo in cui perseguono i medesimi obiettivi, ma potrà anche promuovere l’uso ‘strumentale’ dei modelli organizzativi del Terzo settore. Si pensi ad esempio a una rete associativa che costituisca una società impresa sociale per lo svolgimento di attività strumentali (ad es. di formazione) in favore degli enti ad essa aderenti. Oppure a un’impresa sociale che dia luogo ad una fondazione filantropica al fine di supportare altri enti del terzo settore.
Esperimenti di ingegneria organizzativa, favoriti dalla nuova legislazione, si convertono così in fattori di forte innovazione sociale. I rapporti annuali di Terzjus cercheranno di cogliere questo aspetto dedi- cando ampio spazio alla narrazione di ‘buone prassi organizzative’ favorite dalla Riforma. Il riconoscimento legislativo del Terzo settore non poteva che realizzarsi attraverso una chiara delimitazione del suo ‘perimetro’ e la conseguente attribuzione di una specifica identità agli enti in esso rientranti. Oggi, finalmente, sappiamo cos’è Terzo settore e cosa non lo è. Chi può definirsi ente del Terzo settore e chi non lo può (più) fare (se non intende essere sanzionato). Gli enti del Terzo settore sono enti privati, indipendenti sia dagli enti pubblici sia da altri soggetti come i partiti politici e i sindacati. Essi svolgono una o più attività di interesse generale (tra quelle elencate dal legislatore) non per scopo di lucro bensì per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. L’iscrizione nel Runts è l’atto formale che ne completa l’iter di qualificazione giuridica.
Mancano solo due passaggi fondamentali: l’avvio del Registro unico, ormai imminente, e il rilascio dell’autorizzazione europea alla nuova disciplina fiscale, che il governo deve richiedere a Bruxelles
Tutti i requisiti sopra menzionati sono dunque essenziali affinché un ente sia del Terzo settore. Dal quadro complessivo emerge peraltro un settore impropriamente definito ‘terzo’. Che non sia ‘terzo’ in ordine di importanza, rispetto al ‘primo’ e al ‘secondo’ settore, è un aspetto già messo in evidenza da diversi commentatori. Il Terzo settore non entra in gioco e non deve essere invocato solo in caso di ‘fallimento’ dello Stato e del mercato, ma deve essere trattato alla stessa stregua di questi ultimi due, ed anzi in certi casi loro preferito in ragione del suo collegamento con il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, messo in luce, senza esitazioni, dalla tanto fondamentale quanto coraggiosa sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 2020. Ma a ben vedere, il nostro settore ‘terzo’ non può definirsi non solo perché una graduatoria tra settori è inconcepibile dal punto di vista logico, ma anche perché, in verità, i settori da individuare e considerare non sarebbero soltanto tre, ma molti di più. Innanzitutto, nell’ambito del ‘secondo’ settore, le società cooperative (la cui funzione sociale è riconosciuta dalla Costituzione) richiederebbero una collocazione specifica rispetto alle società lucrative. Non a caso, in alcuni Paesi europei, esse rien- trano (assieme agli enti senza scopo di lucro) nella categoria, anche normativa, dell’’economia sociale’.
In secondo luogo, anche in ragione della riforma del 2017, occorre tracciare una chiara linea di demarcazione tra il settore ‘non profit’ genericamente inteso e il settore degli enti non lucrativi di utilità sociale, denominato appunto ‘Terzo settore’. I due ambiti dovrebbero essere tenuti separati e distinti in analisi di ogni genere. Anche a livello statistico, ad esempio, ci si deve interrogare, come del resto si cerca di fare nel 1° Rapporto di Terzjus, su quante, delle oltre 350mila organizzazioni non profit censite dall’Istat (con riferimento al 31 dicembre 2018), diventeranno enti del Terzo settore iscrivendosi nel Runts. Se in prima battuta si può rispondere che non tutti gli enti non profit sceglieranno di qualificarsi come enti del Terzo settore, vi sono tuttavia diversi elementi che inducono a ritenere che il Terzo settore saprà attrarre molte più organizzazioni di quelle complessivamente già censite dall’Istat come istituzioni non profit. Emergeranno infatti ‘nuovi’ enti del Terzo settore in virtù di un quadro normativo favorevole sia al transito di diverse realtà organizzative dal ‘secondo’ al ‘terzo’ settore, sia alla generazione di ‘nuove’ realtà organizzative espressive del bisogno crescente dei cittadini di trovare soluzioni ‘private’ a istanze di interesse generale.
Non si può più parlare di settore ‘terzo’, anche perché gli ambiti sono ormai molti di più, e si generano processi innovativi
Un forte contributo in questa direzione potrà anche venire dagli enti religiosi. Questi ultimi potranno infatti decidere di gestire le proprie attività di interesse generale costituendo un ‘ramo del Terzo settore’, funzionalmente e contabilmente separato dalle attività di culto svolte dal medesimo ente, oppure un autonomo, ancorché controllato, soggetto giuridico del Terzo settore. Affinché tutte le potenzialità della riforma possano realizzarsi, è necessario però che si completi il suo percorso di attuazione, cui mancano ancora, sostanzialmente, due passaggi fondamentali: il primo, l’avvio del Runts, è dato ormai come imminente; il secondo, il rilascio dell’autorizzazione europea alla nuova disciplina fiscale del Terzo settore, richiede invece la preventiva richiesta da parte del Governo italiano che si spera sia presentata senza indugio alla Commissione europea.
*Antonio Fici, Professore di Diritto Privato Università del Molise e Direttore scientifico di Terzjus
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