Oltre il Covid-19, il futuro del welfare, il futuro del Paese

Riportiamo qui il testo dell’intervento del Presidente Bobba al terzo e ultimo incontro del ciclo “Oltre il Covid-19: il futuro del welfare, il futuro del Paese” che si è tenuto a Napoli il 18 maggio 2021. Promosso dalle ACLI provinciali di Napoli, i seminari hanno ospitato protagonisti delle istituzioni, del terzo settore, dell’università per fare il punto su come sarebbe cambiato il Paese quando fosse stata superata la drammatica fase emergenziale dovuta al Covid-19.

LUIGI BOBBA

È il padre del Codice del Terzo Settore. Dal 28 febbraio 2014 Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel I Governo Renzi e confermato il 29 dicembre 2016, nel I Governo Gentiloni Silveri. 

Dopo aver conseguito la laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Torino nel 1979, ha esercitato l’attività di giornalista pubblicista, di ricercatore sociale ed è stato professore a contratto all’Università di Salerno nel 2002.

È animatore del Terzo Settore e protagonista della sua crescita. Partecipa alla creazione di Banca Etica, di cui è stato Vice Presidente dal 1998 al 2004. Ricopre il ruolo di Portavoce del Forum del Terzo Settore dal 1997 al 2000. Nelle ACLI assume prima la carica di Vice Presidente nazionale (1994-1998) e poi di Presidente (1998-2006).

Nei primi anni ’80 ha creato il Movimento Primo Lavoro ed è stato l’ideatore e il coordinatore di Job&Orienta, la manifestazione che si tiene dal 1991 ogni anno alla Fiera di Verona dedicata ai temi della scuola, dell’orientamento, della formazione e del lavoro.

È autore di numerose opere sui temi del lavoro, del welfare e della formazione, così come di numerosi articoli, saggi e pubblicazioni. 

Nelle elezioni del 2008, viene eletto alla Camera nelle liste del Partito Democratico dove ricopre il ruolo di Vice Presidente della Commissione Lavoro. Candidato alla Presidenza della Provincia di Vercelli per le Elezioni amministrative del 2011, diventa consigliere provinciale. Nella XVII Legislatura è stato rieletto Deputato, ed è stato membro della V Commissione Bilancio e Tesoro nonché della Commissione bicamerale per l’Infanzia e l’Adolescenza. Attualmente è presidente della Fondazione Terzjus. 

La pandemia è terminata, ma siamo ancora dentro questa vicenda che ci ha travolti nella vita quotidiana, travolti nel lavoro, travolti nelle relazioni fondamentali e altrettanto in quelle sociali e associative. Il rischio principale è rappresentato dal leggere questa situazione attraverso due immagini stereotipate.

La prima, quella nata all’inizio della crisi pandemica, per reagire un po’ alla situazione di paura e di incertezza, giacché non si sapeva a cosa si stava andava incontro, riassunta nello slogan “andrà tutto bene”, come a dire “in qualche modo cerchiamo di oltrepassare la crisi” senza andare a rivedere cosa questa metteva in discussione. E l’altra immagine “speriamo che presto tutto torni come prima”, come se il mondo di prima fosse il migliore dei mondi possibili e che la crisi pandemica fosse una semplice parentesi, una parentesi da rinchiudere per tornare a come eravamo. Né una né l’atra metafora possano darci la chiave per andare oltre questa crisi legata al Covid-19.

La prima perché è una metafora buonista ed eccessivamente ottimista, che non vede e forse non vuole vedere che dentro la crisi ci sono delle criticità e dei conflitti molto forti: pensiamo alla condizione dei soggetti più vulnerabili, agli anziani, al tema dell’occupazione (nonostante il blocco dei licenziamenti, si sono persi 444.000 posti di lavoro, in gran parte concentrati nelle fasce giovanili e tra le donne, un dato così evidente che non possiamo trascurare).  Pensiamo a come la solitudine, la mancanza di relazioni abbia colpito in modo preminente le persone con una qualche disabilità, con problemi di disagio, con qualche difficoltà perché non avevano sostegni, soprattutto di carattere familiare. Pensiamo al problema legato ai bambini, costretti in molti casi ad una forma di insegnamento a distanza, la cosiddetta D.A.D., che ha selezionato, a seconda delle condizioni di partenza delle famiglie, la disponibilità degli strumenti e delle connessioni, la cultura per poter non rinunciare ad un’educazione, ad un apprendimento, come elemento fondamentale per la crescita delle persone.

In questa pandemia ci sono state delle criticità forti che hanno ingigantito le diseguaglianze, tema che già condizionava fortemente la nostra società. Tema che rischia di essere un vero e proprio tarlo delle nostre comunità e anche della stessa convivenza democratica.

L’altra immagine usata, “torniamo come prima”, è invece un modo per dire che gli elementi che ci hanno portato ad evidenziare la crescita delle diseguaglianze e dei conflitti dentro la situazione pandemica, avevano già radici nel “come eravamo”. Elementi che non possiamo nascondere, ma dobbiamo portarli in emersione, perché questa “occasione” della crisi può essere occasione di trasformazione, se riusciamo a cogliere le opportunità che ci mette difronte, pur nella drammaticità della condizione di molti.

D’altra parte, questa criticità si è rivelata soprattutto nei legami associativi. Senza le relazioni, senza la costruzione delle reti comunitarie, del fare comunità perdiamo la nostra anima, la nostra missione. Ebbene, dentro la crisi ci siamo accorti di un dato, la relazione, che era la nostra risorsa, la nostra opportunità, la nostra potenzialità, è invece diventata un pericolo, un rischio, è diventato un elemento di inciampo.

Questo ci ha obbligato non solo a ripensare al nostro sistema di relazioni, ma anche ad utilizzare al meglio le potenzialità che le tecnologie ci danno per costruire delle relazioni che non sono così calde e intense come quando ci incontriamo per prendere un caffè insieme e scambiarci idee, pareri e battute, tuttavia ci consentono comunque di mantenere vivo un legame.

In questo momento c’è bisogno di ri-immergersi in una riscoperta dei valori fondamentali sui quali è costruita la nostra convivenza e sono costruite le nostre comunità.  Mi piace utilizzare la parola “ri-nascere”. Un pò come il viaggio controintuitivo che fanno i salmoni per depositare le uova, per generare, per dare vita nuova. Essi, anziché assecondare la corrente, vanno verso la foce, verso le origini, vanno verso la sorgente.

Allora, se la crisi è anche un’occasione per ritornare alla sorgente, per ritornare ai valori che riteniamo formativi per le nostre relazioni, per le nostre comunità, per il nostro fare sociale, evidentemente essa costituisce un’occasione da non buttare via.

Se non ci lasciamo imprigionare dalle due immagini “andrà tutto bene”, un ottimismo di facciata e buonista, e “torniamo presto come prima”, abbiamo però bisogno di immaginare, utilizzando un’espressione dello psicanalista Recalcati, abbiamo bisogno di “innamorarci di un futuro”.

Cosa significa innamorarci del futuro?  Significa che deve esserci qualcosa che ci proietti fuori di noi, che ci proietti fuori dalla crisi, che ci rimetta in gioco, che ci faccia tirar fuori il meglio dei nostri talenti per poter dare forma al futuro.

In tutto questo, cosa centra il Terzo Settore? Un libro dell’ex governatore della banca centrale indiana, Raghuram Rajan, intitolato “The third pillar”, il terzo pilastro, ha un sottotitolo ancora più esplicativo “La comunità dimenticata dallo Stato e dal mercato”. Raghuram Rajan scrive che una società non si regge unicamente sulle relazioni dello scambio, quelle del mercato, e sul comando della legge, lo Stato, ma si regge se c’è un terzo pilastro appunto, un Terzo Settore, che costituisce il tessuto connettivo delle relazioni comunitarie e sociali tra le persone.

Allora forse questa crisi e il Piano Nazionale per il Rilancio e la Resilienza, o mi piacerebbe dire “Piano per la Rinascita del Paese”, non possono dimenticare, ignorare o sottovalutare il terzo pilastro, il Terzo Settore, la comunità entro cui si svolge una parte importante della vita delle persone. Non può farlo poiché, altrimenti, il mercato subirebbe dei contraccolpi competitivi e lo Stato non riuscirebbe a stare dietro alla miriade di bisogni emergenti, largamente insoddisfatti (quanti ne abbiamo visti durante questa situazione di crisi).

La riforma che ha portato all’approvazione del Codice del Terzo Settore aveva queste intenzionalità politico-culturali ovvero riconoscere il “terzo pilastro”. Riconoscere nel senso che già esiste, non lo crea la legge. La legge semplicemente lo riconosce e cerca di potenziarlo, di valorizzarlo, di favorirlo. Di creare delle condizioni per cui quella rete di relazioni comunitarie possa rigenerarsi e possa essere una fonte di produzione di beni comuni, di bene comune. Se il terzo settore non resta rilegato in una nicchia, un pò funzionalistica o emergenzialista – ci si ricorda del Terzo Settore quando ci sono problemi ai quali nessuno sa come dare risposta oppure ci si ricorda del Terzo Settore quando si devono ridurre i costi dello stato sociale, usciamo da questa tenaglia – si può guardare al Terzo Settore come un fattore di trasformazione della vita delle nostre società.

Nel 2020, nell’ambito dell’incontro ad Assisi per il “The Economy of Francesco”, che ha visto la partecipazione di 2000 giovani economisti, il Papa ha usato parole che sono sembrate ad alcun quasi abrasive nei confronti del Terzo Settore. Invece, leggendole nel loro insieme, si percepisce come Papa Francesco voleva attribuire proprio alle organizzazioni del terzo settore il compito di affrontare strutturalmente, e non semplicemente di lenire i guai, gli squilibri che colpiscono le persone più escluse e con quest’opera un pò filantropica magari rischiare di perpetrare le ingiustizie che si vorrebbero contrastare. È una parola un po’ ruvida, come accade ad un Papa che ci dà sempre qualche salutare “pugno nello stomaco”, perché ci obbliga a pensare e a riflettere, ma non è di certo una negazione del ruolo cruciale del terzo settore nella generazione di una società dove questi squilibri vengano combattuti e superati.

Il Piano Nazionale per il Rilancio e la Resilienza, è un’occasione assolutamente unica e straordinaria, grazie alla quale avere a disposizione, nel giro di cinque anni 209miliardi di euro, di cui due terzi in prestito e un terzo a fondo perduto. Esso può effettivamente essere un volano per questa trasformazione.

Allo stesso tempo potrebbe, invece, essere un’occasione persa, rimanendo legati alle contraddizioni e all’incapacità di innovare delle nostre società. Innanzitutto, questo piano non deve  rinchiudere il terzo settore in una nicchia, come se fosse solo legato alla dimensione dello stato sociale, che certo è un elemento importante. Il terzo settore agisce in modo trasversale perché agisce nel campo della cultura, nel campo della sostenibilità, nel campo dell’inclusione lavorativa, nel campo del superamento del digital divide una trasversalità che attraversa un pò tutti i campi di azione della nostra società.

Primo approccio corretto è quello di avere uno sguardo di insieme, diverso dall’approccio utilizzato nei diversi provvedimenti emergenziali a cui abbiamo assistito in questi mesi. Occorre poi, per affrontare questo cambiamento, vedere il terzo settore come un generatore, un produttore di beni comuni: un capitolo importante della riforma è rappresentato dai rapporti della pubblica amministrazione con gli enti del terzo settore.

Il giudice Luca Antonini, che ha stilato la sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del giugno 2020, ha individuato un punto cruciale quando ha detto che tra Pubblica Amministrazione e gli enti del terzo settore non c’è un controinteresse, ma c’è una comunione di scopo: entrambi, pure essendo un soggetto pubblico e un soggetto giuridicamente privato, perseguono un interesse generale. L’art. 118 della Costituzione prevede che lo Stato, le amministrazioni, hanno il compito di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, la sussidiarietà, la capacità di agire con libertà per qualche buona causa, nello svolgimento di attività di interesse generale, cioè di attività che non sono rivolte ad interessi privati o ai pochi, ma sono rivolte a interessi pubblici e ad una dimensione comunitaria.

Un punto chiave nella gestione delle procedure e degli affidamenti che si dovranno fare per gestire queste numerose risorse è rappresentato da una piccola rivoluzione: non è il codice degli appalti che deve regolare il rapporto tra pubblica amministrazione ed enti del terzo, è il codice del terzo settore, cioè la capacità, quindi, di co-programmare, di co-progettare, di costruire qualcosa che ha un fine comune. Poi ciascuno metterà la sua capacità, le sue competenze e le sue risorse. L’amministrazione sicuramente dovrà gestire le procedure con evidenza pubblica e secondo il criterio della trasparenza.

Tutto questo rappresenterebbe una rivoluzione culturale. Il Piano Nazionale per il Rilancio e la Resilienza potrebbe essere un’occasione straordinaria per mettere alla prova gli enti del terzo settore e mettere alla prova un’innovazione forte nella pubblica amministrazione.

Che fine faranno le associazioni? Che potenzialità possono svolgere queste reti associative e comunitarie? Le associazioni hanno davanti a loro una duplice sfida. Da un lato quella di “tornare alle origini”, sentirsi parte della comunità e soprattutto sentirsi uno strumento di servizio di inclusione dei cittadini più deboli. Esse hanno il compito di mettere in campo tutte le risorse che sono in grado di mobilitare, non aspettando qualcuno che dia l’input, ma, secondo il principio di sussidiarietà, di fronte ai bisogni organizzare le risposte.

Durante questa pandemia avevamo di fronte i bisogni, le difficoltà delle persone più deboli, eravamo spinti dalla nostra natura e dai nostri valori, dalla nostra missione, a intervenire, non disinteressandoci delle regole, ma neanche ingessandoci in una dinamica meramente legalistica. Le persone, la vita vengono sempre prima delle regole e della legge. Se le ignoriamo tradiamo la nostra missione. Inoltre, dobbiamo immaginare di costruire una capacità di progettare risposte nuove ai problemi che sono venuti emergendo o meglio, esplodendo con questa crisi. Durante i primi mesi di pandemia mi telefonò una persona che avevo avuto il piacere di conoscere quando ero Presidente delle Acli perché aveva avuto questa intuizione: quella che si potesse utilizzare uno strumento che le Acli conoscono bene, quello del Servizio Civile per mettere in campo delle risorse dei nativi digitali per venire incontro ai bisogni delle famiglie con bambini più disagiati, “tagliati fuori” da quel diritto fondamentale che è il diritto all’educazione e il diritto all’istruzione. Si potrebbe quindi immaginare una forma originale di servizio civile che faccia leva sulle potenzialità e sulle capacità dei più giovani, che sicuramente hanno un rapporto più “amichevole” con le tecnologie, che si metta al servizio delle persone più in difficoltà e per rendere esigibile un diritto, quello all’istruzione per tutti.

Seguendo questa strada, sicuramente non facile, insieme ai tanti provvedimenti, necessari e giusti che sono stati presi, occorrerebbe mettere in capo qualcosa di più strategico, che guardi un pò più lontano, valorizzando quelle forme di imprenditorialità sociale che sono quelle che hanno dimostrato di reggere meglio il momento della crisi, di continuare a includere le persone più in difficoltà, di avere un fondo strategico perché queste realtà sappiano anche innovare, cioè tenersi al passo con i cambiamenti che il mercato e le attività produttive richiedono. Quindi, anziché tanti piccoli interventi servirebbe qualcosa che abbia questa visione strategica.

Negli anni scorsi, in Lombardia, è stato sperimentato il così detto “fondo Jeremy”: se uno investiva 10 euro in un’impresa sociale, l’attore pubblico ci metteva altrettanto in termini di capitale sociale. Se si scommette su un’idea che ha un valore economico produttivo ma che genera anche valore sociale, io, soggetto pubblico, scommetto con te con un intervento concreto.

Negli ultimi anni il Governo italiano non ha risposto in modo adeguato alle sollecitazioni della Commissione Europea. Il Commissario Nicolas Smith ha avuto una delega a costruire un action plan per l’economia sociale di prossimità, cioè ad avere un quadro strategico di riferimento su come gli attori del terzo settore contribuiscono al rilancio, attraverso quella componente di economia sociale di prossimità che si sta rivelando un elemento portante delle nostre realtà. Il Governo Italiano non ha neanche risposto alla lettera inviata alle ex-Ministre Catalfo e Bonetti e oggi il tema è importante.

Questa pandemia porta con sé molti motivi di preoccupazione e di ansia, ma ci sono anche motivi di speranza e di opportunità. Dobbiamo saper governare le preoccupazioni, non lasciandoci travolgere e soprattutto cogliere le opportunità per il nostro futuro e per il nostro futuro insieme.

Durante questa pandemia il Papa ha scritto un’enciclica “Fratelli tutti” che ha un interessante sottotitolo: “Lettera enciclica sulla fraternità e sull’amicizia sociale”. In genere, quando si parla di amicizia si pensa ad una questione personale, ma la fraternità ha come elemento basilare proprio l’amicizia sociale cioè il riconoscere che nell’altro c’è qualcosa di importante.

Ne “Il Visconte dimezzato”, opera del grande letterato Italo Calvino, il visconte che viveva sugli alberi riconosce che nel costruire e fare insieme con le persone si tira fuori non solo il meglio di se stessi, ma anche il meglio dagli altri e che, invece, se si sta isolati, gli uni contro gli altri, si è sempre pronti a “mettere mano alla spada”, a difendersi.

L’amicizia sociale deve essere oggi l’ispirazione che ci deve guidare, avendo due attenzioni, quella di “far lavorar le mani”, far sì che la linea che parte dal cuore e arriva alle mani, la capacità trasformativa e di affronto dei bisogni non si spenga della sua energia e non pensare che tocchi a qualcun altro affrontare i problemi.

E poi, quella di avere un’attenzione per l’innovazione, cioè avere attenzione per ciò che ancora non c’è, ma che intuiamo che potrebbe diventare. Ci sono tanti punti di snodo dove l’innovazione richiede un’iniziativa, non ci viene addosso. Gli strumenti per utilizzarla ci sono ma se non c’è anche una capacità di intraprendere da parte dei soggetti sociali, uscendo un pò anche dai loro schemi antichi e passati, c’è il rischio che l’immolazione corra da altre parti, perché il mondo comunque è in continuo cambiamento. Se viene meno questa anima sociale e solidale delle nostre comunità c’è un impoverimento che riguarda tutti, ma in particolare i soggetti più vulnerabili.

Se ci ispiriamo a quell’enciclica che ha anche un forte valore politico e che ci mette sotto gli occhi, già dai primi capitoli, gli elementi che sono difficili da accettare, ma sono la realtà del mondo. Poi, ci offre anche l’indicazione di una prospettiva e anche degli strumenti possibili. Abbeveriamoci da questa enciclica del Papa perché aiuti anche noi nel fare meglio il nostro antico ma sempre nuovo mestiere.

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Luigi BobbaOltre il Covid-19, il futuro del welfare, il futuro del Paese
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La Estrela do Mar cuore pulsante del Mozambico

[articolo pubblicato su Corriere Eusebiano del 15 aprile 2023, pag.12]

Alla metà di febbraio è cominciato l’anno scolastico 2023 ad Inhassoro in Mozambico, dove sono attive sia la Estrela do Mar – Istituto Tecnico industriale nato nel 2014 per iniziativa delle Acli sia il Liceo S.Eusebio, avviato nel 2020. Entrambe le istituzioni scolastiche sono sotto la responsabilità di Padre Geremia, il parroco di Inhassoro che ha preso il testimone nel 2020 dai nostri missionari vercellesi don Pio Bono e Caterina Fassio. Poche settimane dopo l’avvio delle lezioni, il Distretto di Inhassoro è stato investito da violenti piogge. Fortunatamente, si sono registrati solo alcuni danni di modesta entità alle strutture del Centro giovanile della Parrocchia e in alcune aree esterne alla scuola stessa. Ora l’attività formativa procede a pieno ritmo ed è possibile fare un sintetico bilancio dell’anno scolastico 2022 e indicare le prospettive per il 2023.

L’Istituto Tecnico Industriale è stato frequentato nel 2022 da  360 studenti, di cui 114 donne distribuiti nei tre corsi di qualifica: 76 in Contabilità;134 in meccanica industriale e 150 in Elettricità industriale. L’Istituto si avvale di 25 formatori sotto la guida del direttore pedagogico Celso Guissemo. Nello scorso mese di settembre, l’Istituto ha partecipato  alla “Settimana dell’Istruzione tecnica” mettendo in evidenza le proprie potenzialità formative e produttive di fronte alle aziende invitate alla sessione inaugurale. Questa settimana è stata anche l’occasione per confermare o avviare nuovi partnerariati con le aziende che poi ospiteranno i tirocinanti dell’Istituto per un periodo di stage formativo e di lavoro. Sono 13 le aziende che accolgono gli studenti della Estrela do Mar. L’Istituto poi svolge altresì gli esami di ammissione dei propri studenti che vogliono iscriversi  all’Istituto Politecnico Superiore di Songo , dove si tengono corsi universitari di Ingegneria. Una opportunità per gli studenti della Estrela do Mar di proseguire, dopo il diploma tecnico, gli studi universitari. Grazie al sostegno della Ong “Giving Genie”, sono state attribuite 17 borse di studio agli studenti più svantaggiati, onde consentire loro di mantenersi agli studi.

Ma il progetto più impegnativo realizzato dall’Istituto a favore degli studenti del Liceo S. Eusebio riguarda la possibilità di poter accedere  ad una formazione professionale di base aggiuntiva alla formazione scolastica  dei primi tre anni della scuola secondaria. Grazie alle risorse erogate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli e a quelle delle Acli di Vercelli e nazionali,  sono stati realizzati nella seconda parte del 2022, tre corsi di formazione professionale di breve durata nei settori dell’Elettricità, della Riparazione di piccoli elettrodomestici  e di Taglio e cucito. Complessivamente hanno partecipato 71 studenti di cui 21 donne, suddivisi nei tre diversi corsi. Una scelta che è stata molto apprezzata dalle famiglie e dalla comunità di Inhassoro e che sarà ripetuta anche nel corso del 2023. Le adesioni ai corsi – quest’anno ci sarà anche quello di tecniche di base di saldatura – sono ormai più di 200 e non sarà facile poter soddisfare la domanda che proviene dai ragazzi del Liceo S.Eusebio. Questa giovane istituzione scolastica – sempre insediata nelle strutture della Estrela do Mar – ha visto nel 2022  una presenza di 705 studenti divisi in 17 classi. Per il 2023 la domanda è cresciuta fino ad arrivare – per i primi tre anni di scuola secondaria – a  971 studenti divisi in 22 classi  su due turni: mattutino e pomeridiano. Una crescita impetuosa che rivela la prorompente domanda di istruzione dei giovani del Distretto di Inhassoro e l’attrattività del complesso scolastico della Estrela do Mar. 

Anche per l’Istituto tecnico si registra per il 2023 un incremento di 125 matricole che porta gli studenti nei tre corsi di qualificazione a quasi 400. Il direttore, Celso Guissemo è impegnato a mantenere in buono stato le qualificate attrezzature tecniche  presenti nei diversi laboratori, fornire assistenza per i corsi di formazione professionale di breve durata, cercare finanziamenti per nuovi progetti  e preparare l’Istituto ad utilizzare  le energie rinnovabili. Nel frattempo, la Estrela do Mar potrà avvalersi di laboratori attrezzati  per la saldatura che l’azienda “Sasol” ha lasciato in dono alla Estrela do Mar in forza di un accordo sottoscritto ancora con don Pio Bono nel 2019. Sfide impegnative che le Acli di Vercelli, attraverso Ipsia Odv Vercelli  e le Acli nazionali vogliono continuare a supportare in quanto credono alla leva strategica della formazione come volano dello sviluppo di quel territorio e occasione di qualificazione dei giovani del Distretto di Inhassoro.

Luigi Bobba

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Luigi BobbaLa Estrela do Mar cuore pulsante del Mozambico
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Luigi Bobba su «Avvenire», Mozambico, lavoro e formazione: la lezione di Inhassoro

L’idea di avviare una scuola professionale era stata di un missionario italiano, don Pio Bono, “fidei donum” della diocesi di Vercelli, con alle spalle già 30 anni di presenza in Kenia e che dal 2000 si era insediato in una parrocchia lasciata dai missionari della Consolata a causa della sanguinosa guerra civile, conclusasi poi con gli accordi di pace firmati a Roma alla Comunità di S. Egidio.

Don Pio mi interpellò – ero allora presidente delle Acli – per chiedere un aiuto nel costruire una scuola professionale. Conosceva infatti l’esperienza italiana dell’ENAIP – l’ente di formazione professionale promosso dalle Acli – e riteneva necessario offrire una possibilità di formazione al lavoro per tanti giovani del posto che non avevano altra alternativa che emigrare in Sudafrica per lavorare in miniera o dedicarsi alla pesca o ad una povera agricoltura di sussistenza. Fu l’occasione per celebrare in modo non retorico i 50 anni di fondazione dell’ENAIP, che ricorrevano proprio nel 2002. Grazie al contributo dell’8 per mille della Chiesa cattolica e al sostegno dei soci delle Acli (dedicammo 0.50 euro del costo di ogni tessera a questo progetto), in meno di due anni i primi edifici della scuola furono pronti, insieme ai laboratori di sartoria e di falegnameria. Così, con l’anno scolastico 2014 partirono i primi due corsi con circa 125 studenti. Poi, poco per volta la scuola è cresciuta. Sono stati attrezzati altri due laboratori di elettricità e di meccanica e installata un’aula computer, allora l’unica in tutto il distretto di Inhassoro. Grazie a questi nuovi laboratori, i corsi professionali diventarono quattro e gli allievi circa 400. Le competenze, che le ragazze e i ragazzi stavano acquisendo, erano essenziali per lo svolgimento dei mestieri di base in una comunità interessata da un primo sviluppo economico locale. Poi nel 2009, l’incontro con una Ong italiana, il Celim, che disponendo di un finanziamento della Cooperazione del Governo italiano, decise di inserirsi nella struttura della Estrela do mar, costruendo un moderno laboratorio di cucina. Partì così anche un quinto corso di Hotellerie e turismo, nonché un sesto corso di contabilità. Il Celim realizzò, sempre ad Inhassoro – proprio in riva all’Oceano Indiano –, anche un piccolo ma grazioso resort – Hotel Estrela do mar– diventato poi la struttura dove gli studenti potevano svolgere dei tirocini professionali. Dunque la scuola si andava affermando come una piccola ma qualificata leva di sviluppo locale, oltreché come struttura formativa sempre più apprezzata non solo nel distretto di Inhassoro ma anche in tutta la Provincia di Inhambane. Gli studenti erano ormai più di 600 e nel 2011 la Estrela do marottenne il riconoscimento come seconda miglior scuola professionale del Mozambico. Quello che sembrava un sogno, pur tra mille difficoltà, era diventato una realtà concreta e un’opportunità di buona formazione per tanti giovani mozambicani. Si tratta di una “scuola comunitaria” che opera sotto la responsabilità della Diocesi di Inhambane (a cui le Acli hanno donato l’edificio e i laboratori) ed è regolata ai sensi di un’intesa tra la Chiesa cattolica e il governo Mozambicano. La direzione della scuola è di competenza della Diocesi (il direttore fino al 2019 è stato il missionario don Pio Bono e ora, invece, il nuovo parroco di Inhassoro, p. Geremia dos Santos Moses); il governo assicura il pagamento degli insegnanti, del direttore pedagogico aggiunto e del personale di segreteria. Le Acli, fin dall’inizio, oltre ad aver contribuito alla costruzione di 35 aule e all’allestimento di cinque laboratori, non hanno mai fatto mancare il loro sostegno per la manutenzione e l’aggiornamento dei laboratori, per il pagamento del personale non insegnante e per i costi del materiale di consumo mediante una quota annuale del 5 per mille, con l’opera qualificata di formatori dell’Enaip, con l’appoggio della propria ong Ipsia. Fondamentale è stato (è lo è ancora) il sostegno di Ipsia Vercelli ODV, della Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli che da dieci anni eroga un contributo finanziario, dei molti volontari che hanno prestato gratuitamente la loro opera, dei ragazzi in Servizio civile che si sono succeduti dal 2009 ad oggi (salvo per il periodo della pandemia) e dei tanti anche che hanno fatto donazioni. È grazie a loro che il sogno, nonostante le molte difficoltà, non si è infranto e che ora più di 1000 ragazzi e ragazze hanno un’opportunità di formazione secondaria e professionale. Nel frattempo, a partire dal 2015 sono intervenute importanti novità che hanno accresciuto la capacità della scuola di attrarre studenti anche da province limitrofe e ampliato e diversificato l’offerta formativa. Infatti, dal 2015, la scuola professionale è stata riconosciuta come “Istituto tecnico e commerciale” per cui sono stati attivati gli ultimi anni di scuola secondaria per poter conseguire il diploma superiore ed eventualmente accedere all’Università. Attualmente i corsi di studio sono tre: contabilità, elettricità e meccanica industriale per un totale di 360 allievi di cui 136 sono ragazze. Grazie all’intervento della Sasol, un’azienda sudafricana di estrazione del gas, questi corsi sono ospitati in un nuova struttura realizzata dalla stessa azienda. Il sostegno finanziario di diversi Rotary del territorio vercellese ha consentito poi di aprire nuovi laboratori con attrezzature adeguate alla specializzazione industriale che l’Istituto andava assumendo. È stato altresì attivato un nuovo laboratorio di informatica con più di 40 postazioni. Tutto questo consente di preparare figure professionali con le competenze richieste sia da Sasol sia da altre aziende che si sono insediate nella Provincia di Inhambane, tra cui l’italiana Bonatti o la francese Bolloré. Gli studenti, prima di diplomarsi, hanno la possibilità di fare uno stage presso queste o altre aziende e poi, in non pochi casi, di inserirsi al lavoro nella stessa impresa. Altra importante novità: su richiesta del Governo locale, è nato nel 2020 il Liceo S. Eusebio dove si tengono i primi tre anni di scuola secondaria con la presenza di circa 700 studenti. Infine, per iniziativa delle Acli e dell’Enaip, nel 2019 è partita l’impresa sociale Enaip Mozambico che ha sede a Maputo e che opera per la formazione dei formatori e l’assistenza tecnica di 10 scuole professionali nel campo del turismo e dell’agricoltura. In un paese, dove circa la metà della popolazione ha meno di 25 anni, la leva fondamentale per un’uscita dalla povertà e una crescita equilibrata è rappresentata dall’investimento in formazione e buona scuola. È quello che le Acli, insieme a diverse altre realtà con radici italiane (a cominciare dai Salesiani) stanno provando a fare.

[pubblicato in «L’economia Civile» di «Avvenire» di mercoledì 23 novembre 2022]

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L’impatto sociale nell’opera delle Figlie di Maria Ausiliatrice nella società civile di oggi e di domani.

L’IMPATTO SOCIALE NELL’OPERA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE NELLA SOCIETÀ CIVILE DI OGGI E DI DOMANI

Intervento di Luigi Bobba alla manifestazione per i 150 anni della Fondazione delle FMA – Torino 12 ottobre 2022

Ricorrendo questo 150esimo anniversario della fondazione delle FMA (Figlie di Maria Ausiliatrice) mi è venuto in mente un aforisma attribuito al Presidente americano Abramo Lincoln: “ Non sono gli anni che contano della tua vita, ma la vita che metti in quegli anni”.

Ecco di vita le FMA in questi 150 anni ne hanno messa molta, nuove opportunità di vita con la formazione dei giovani al lavoro, sostenendo chi arranca sulle strade della vita, incoraggiando chi è rassegnato e insoddisfatto della propria vita, aprendo gli occhi e il cuore ad una speranza nella vita oltre la morte. E dunque questo anniversario è una celebrazione,non tanto per guardare ad un passato fatto di opere grandi e straordinarie, ma un invito a guardare al presente e a proiettarsi nel futuro.

La mia è solo una breve testimonianza personale di come ho incontrato le FMA nel ramo di attività che prima don Bosco e poi Madre Mazzarello hanno loro assegnato: l’educazione dei giovani, la formazione professionale, ovvero le opere inquadrate oggi nel CIOFS, Centro Italiano Opere femminili Salesiane.

Già la sigla -CIOFS- appare più leggera, quasi musicale rispetto a quella più quadrata dei confratelli maschi che operano nello stesso campo con il CNOS. Forse un segno distintivo di quel “genio femminile” di cui aveva parlato Giovanni Paolo II. Ecco proprio negli anni – prima nella responsabilità nazionale delle Acli e dell’Enaip e poi in quella politico parlamentare – è maturata una relazione di amicizia e di stima che continua tuttora.

E allora mi sono interrogato sulla parola chiave del titolo di questo panel: “impatto”. Vengono subito in mente le orme, le tracce, i segni, le opere che lasciamo nelle nostre comunità. Tracce e segni che ho colto sia direttamente nella mia realtà territoriale di appartenenza (sr. Egidia); sia in quella piemontese (sr. Silvana): sia infine in quella nazionale (sr. Manuela, sr. Lauretta e sr. Angela). Tracce, segni, opere da riconoscere non come rendita di un passato glorioso, ma come indicatori di un futuro possibile e desiderabile. Se vogliamo parlare ai ragazzi e alle ragazze di oggi e di domani, serve saper riscoprire la fecondità del carisma delle origini in questa società che è diventata complessa e globale, liquida e in polvere, interconnessa ma frammentata, digitale ma a rischio di incomunicabilità. È lì che si misura la capacità di generare opere inedite o di immettere nuova vita in quelle che hanno fatto grande e bella la vostra storia.

Così ho provato a fare memoria delle tracce che ho riconosciuto, seguito e che possono fungere da guida, da orientamento per il futuro.

Primo: quella speciale attenzione alle persone “giovani”, non è mai venuta meno. Anche oggi che i giovani non sono più al centro dell’attenzione. Un’attenzione particolare riservata a quelli che sono meno favoriti, più a rischio, dimenticati. Per le FMA non ci sono persone da dimenticare. Anzi proprio a loro è riservata una cura speciale, un sostantivo che ben si associa ad una lettera della vostra sigla.

E poi l’apertura al nuovo non per inseguire o peggio santificare ciò che è nuovo. Ma apertura come capacità di calarsi nelle contraddizioni della storia, in particolare dei giovani che incontrate; di calarsi dentro ai mutamenti del lavoro e delle professioni, delle tecnologie come anche delle metodiche educative e di comunicazione. La fedeltà al carisma infatti non può essere una reliquia da esporre nelle grandi occasioni. Ma una sorgente generativa di nuova vita per chi si misura costantemente con il contesto, di chi non si mette sulla difensiva, ma prova a riattualizzarlo nel qui ed ora, laddove è stato chiamato a realizzare la propria vocazione.

E infine l’orizzonte europeo. Questa celebrazione si tiene a ridosso del 34esimo seminario di formazione europea. Già quel numero – 34 – dice che non si tratta di una moda degli ultimi anni, ma di una scelta, di un profilo distintivo nel promuovere, fare, organizzare la formazione professionale e al lavoro. La VET è entrata nel vostro Dna in quanto:
– come vocazione, affinamento e valorizzazione delle proprie capacità elettive;
– come education, conoscenza e capacità di apprendere;
– come training, maturazione di competenze riconoscibili e riconosciute.

Dunque questa capacità di tenere ben chiara la prospettiva europea – prima di molti altri – è un segno caratteristico che ben esprime quel carisma salesiano di stare laddove si guarda non al passato, ma al futuro. Così la FP può diventare esperienza di Europa anche per molti ragazzi che non hanno mai varcato i confini del proprio territorio familiare e amicale. Un allargamento di confini che non si è fermato alla frontiera europea ma che incarna il carisma educativo salesiano anche nei paesi del Sud del mondo. Sono, in questi giorni, di ritorno dal Mozambico. E anche lì ho incontrato sorelle e fratelli salesiani pronti a giocare la propria vocazione accanto a quel formidabile potenziale di cambiamento che sono i giovani in quei paesi.

Ecco questi tre segni-vicinanza a chi è dimenticato, apertura al nuovo e orizzonte europeo danno la misura dell’impatto delle opere delle FMA che ho conosciuto. A tutte loro un grazie di cuore per la loro testimonianza gioiosa e fedele.

 

Luigi BobbaL’impatto sociale nell’opera delle Figlie di Maria Ausiliatrice nella società civile di oggi e di domani.
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Le potenzialità della formazione professionale come strumento per conciliare le nuove necessità della realtà produttiva

In questo episodio Luigi Bobba – presidente della fondazione Terzjus, ex sottosegretario al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e presidente nazionale delle ACLI – ci accompagna alla scoperta del mercato del lavoro attuale e delle potenzialità della formazione professionale come strumento per conciliare le nuove necessità della realtà produttiva.
Visita il sito https://www.enaiplombardia.eu/

Luigi BobbaLe potenzialità della formazione professionale come strumento per conciliare le nuove necessità della realtà produttiva
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Elezioni 2022: l’agenda della Società Civile per il bene comune. Luigi Bobba firma l’appello

Elezioni 2022: l’agenda della Società Civile per il bene comune 

Siamo cittadine e cittadini esponenti di quella società civile che è la spina dorsale di questo paese ed ogni giorno affronta la sfida di creare valore e valori nelle fabbriche, nelle aziende agricole, nel terziario, nelle scuole, nelle università, nelle imprese sociali, nel volontariato e nella vita associativa di questo paese. 

Siamo consapevoli sia della rilevanza e dell’eccezionalità di questa fase storica,  che dei rischi connessi  a questo delicato passaggio verso le prossime elezioni, per questo i vogliamo a nostro modo “scendere in campo” ed essere protagonisti di questa stagione rendendo chiara e manifesta le nostre proposte,  invitando così le forze politiche ad una competizione virtuosa. 

La crisi e le settimane di campagna elettorale che ci aspettano rischiano da una parte di alimentare odio, rabbia e conflitti partigiani tra i più militanti e dall’altra di spingere ai margini le persone ragionevoli e sensibili generando disaffezione e rassegnazione.

Per questo sentiamo l’urgenza di promuovere, un’alleanza trasversale e inclusiva per connettere movimenti sociali, esperienze civiche, energie imprenditoriali, risorse intellettuali e morali e le migliori esperienze politiche locali.

Un luogo politico di relazioni inclusive e di pensiero in cui poter sognare e guardare lontano come Paese insieme a quelle aree politiche del mondo che scommettono sulla pace e i diritti umani, dove le tensioni sociali vengano ricomposte con scelte concrete. Occorre costruire qualcosa di più grande, che recuperi la fiducia, ormai perduta, dei cittadini. La politica deve essere pensata nelle forme del terzo millennio, abbandonando schemi e procedure novecentesche, ormai morte per sempre.

In questa ora della storia occorre essere forti e lucidi. La mèta è (ri)partire. Ciascuno porti il proprio mattone per costruire la casa comune. La classe politica ha bisogno di nuove persone competenti e coraggiose, capaci di liberare speranza e sogni.

In ogni caso, faremo la nostra parte il 25 settembre andando a votare ed invitando tutti a farlo, senza ordini di scuderia e con libertà di coscienza, da persone libere quali siamo, non rinunciando a collaborare con chi, in modo credibile, riteniamo si avvicinerà di più all’idea di paese per cui ci impegniamo ogni giorno attraverso le nostre attività e su cui crediamo fermamente si giochi il futuro del nostro paese.

Non possiamo costruire il “futuro del passato” e pertanto a chi si sta attivando per diventare parte della classe politica eletta nel nostro Parlamento chiediamo alcune cose molto semplici.

Innanzitutto un principio di fondo, quello della sussidiarietà, ossia di riconnettersi con le energie della società civile perché è questo il modo più fertile e generativo di fare politica. Ciò significa che in moltissimi ambiti e settori della vita pubblica non è necessario reinventare tutto dall’alto ricominciando sempre da zero, ricostruendo e duplicando strutture quanto piuttosto riconoscere socraticamente di “non sapere e non poter fare da soli”, avendo la saggezza di attingere all’enorme giacimento di esperienze, competenze e buone pratiche che sono la vera immensa ricchezza del nostro paese. 

Le forze politiche che noi sosterremo saranno quelle in grado di riconoscere innanzitutto che la prima risorsa da valorizzare è dunque quella della persona e della sua espressività: la cittadinanza attiva è l’unica linfa che può dare forza e vitalità alla nostra democrazia. Affinché i cittadini non siano solo rancorosi leoni da tastiera ma si sentano protagonisti e costruttori delle comunità e del progresso civile dei territori la nuova classe politica eletta deve promuovere con convinzione e forza tutti quei processi di cittadinanza attiva e di mutualismo che oggi rendono vivo e vitale il paese: dalla co-programmazione e coprogettazione tra amministrazioni pubbliche società civile e reti del terzo settore, promossa come approccio più generativo dalla Corte Costituzionale in una recente sentenza, che costruisce welfare e servizi di cura del futuro, allo sviluppo delle comunità energetiche ai percorsi di consumo e risparmio responsabile. Tutto ciò insomma che ci trasforma da vittime sacrificali di eventi che si giocano sopra le nostre teste a coprotagonisti e costruttori consapevoli del nostro futuro.

In campo internazionale chiediamo al prossimo parlamento e governo un ancoraggio e un contributo attivo a quella politica europea, costruita nel tempo grazie al contributo prezioso di tanti nostri esponenti e statisti, che negli ultimi tempi ci ha offerto lo scudo solidissimo di una Banca Centrale e di istituzioni che hanno guidato il paese attraverso le tempeste dello shock pandemico con una navigazione sicura sui mercati finanziari e hanno messo a disposizione con il PNRR nel periodo economico più difficile dal secondo dopoguerra ad oggi risorse ingenti superiori a quelle del piano Marshall, unite ad uno stimolo prezioso e fondamentale per noi ad usare in modo intelligente e a non sprecare gli investimenti realizzati. Risorse da non sprecare e attorno alle quali si giocano molte importanti partite del nostro futuro nel campo delle infrastrutture, dell’energia, del lavoro e della cura.

Nel campo della scuola e del lavoro chiediamo un impegno ad investire con decisione su formazione continua e percorsi di riqualificazione rapidi ed efficaci in un mondo sempre più difficile dove viviamo il paradosso della compresenza di centinaia di migliaia di posti di lavoro vacanti per i quali non si trovano le competenze necessarie e milioni di giovani che non lavorano né studiano. Serve una battaglia comune sul “lavoro dignitoso” quello che non solo rispetti la dignità della persona ma la faccia fiorire. 

Chiediamo inoltre risposte che abbiano l’intelligenza di costruire condizioni che rendano possibile un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale tenendo conto dei vincoli della società globale e delle possibili contromosse che delocalizzazione e concorrenza internazionale sleale sui diritti del lavoro e la tutela dell’ambiente possono generare vanificando i nostri interventi e perpetuando la logica della corsa al ribasso di una concorrenza globale che si gioca solo su costi e prezzi e non anche su dignità del lavoro e tutela dell’ambiente. Per questo guardiamo con grande interesse al nuovo importante passo in avanti del parlamento europeo che votando il meccanismo di aggiustamento alla frontiera (Border Adjustment Mechanism) ha per la prima volta messo in campo meccanismi che penalizzano la concorrenza sleale.

Serve un Welfare umano, non solo ripensato e rafforzato ma capace di protezione e riscatto degli ultimi. Per questo riteniamo fondamentale continuare a lavorare al miglioramento di reti di protezione efficaci e ben funzionanti contro la povertà e gli shock sempre più frequenti che rischiano di far precipitare fasce sempre più vaste della popolazione in condizioni di fragilità e bisogno, ma che al contempo non devono scoraggiare né disincentivare il reinserimento nel mondo del lavoro. Tenendo sempre a mente che la soddisfazione e ricchezza di senso del vivere non dipendono dall’essere terminali permanenti della beneficienza ma dal poter contribuire con il proprio impegno al progresso personale, familiare e civile.

Sul fronte della sfida climatica ed ecologica chiediamo un impegno vero ad intercettare quel futuro ormai alla portata di mano viste le traiettorie del progresso tecnologico globale, fatto di produzione diffusa e partecipata di energia da fonti rinnovabili che ci assicuri una vera indipendenza energetica da poteri stranieri. Salute, clima, convenienza di prezzo, protezione da rischi e volatilità ed indipendenza energetica spingono tutti nella stessa direzione di un futuro fatto di imprese in grado di ridurre significativamente i loro costi di produzione e di aumentare la loro competitività diventando auto produttrici di energia,  di comunità energetiche, di agrivoltaico, di edifici pubblici che, a cominciare dalle scuole, sfruttino da subito il loro enorme potenziale di produzione di energia da fonti abbondanti e liberamente disponibili che non dipendono da accordi con paesi stranieri. Se il breve periodo sarà necessariamente e realisticamente fatto anche di altro chiediamo al governo di non indugiare e di non perdere il treno del futuro. Solo una politica rigenerata sarà capace di gestire le transizioni ascoltando e non contrapponendo il grido della terra con quello dei poveri. 

Nei settori del welfare e della cura, sempre più importanti in una società dove le fragilità e le marginalità purtroppo crescono, chiediamo di fare tesoro delle migliori esperienze sul campo che centrano gli interventi sulle dimensioni dell’ascolto e della relazione che, sono capaci di far incontrare domanda ed offerta di cura ed offrono a persone in condizioni di fragilità e disagio percorsi di attivazione in grado di restituire dignità ed orgoglio perché offrono occasioni di riscatto che valorizzano tutte le loro possibilità di contribuire alla comunità. Elementi in comune che troviamo ed abbiamo appreso tra gli altri nel corso di questi anni nelle esperienze di budget di salute per la disabilità psichica, del lavoro in carcere che riduce la recidiva e nei percorsi di longevità attiva. 

Qualcuno potrebbe domandarsi per quale motivo se abbiamo consapevolezza della gravità del momento, valori ed idee non affrontiamo direttamente la sfida politica. Se questo ovviamente può e deve essere possibile e lodevole per ciascuno di noi preso singolarmente la risposta è molto semplice. Facciamo con passione e riteniamo serio ed importante il nostro lavoro, pensiamo sia fondamentale continuare a svolgerlo per costruire un ecosistema sociale forte, ricco e vitale, solidale e coeso che consentirà al nostro paese di essere resiliente e continuare sul cammino di progresso civile nonostante gli shock dell’economia e della politica. Non abbiamo l’arroganza di pensare di essere superiori o capaci di sostituire la classe politica e riteniamo che la via più generativa in questa fase sia proprio quella di offrire domani il nostro contributo di cooperazione e coprogettazione ma già oggi lo stimolo a muovere nella direzione desiderata.

Il successo del nostro appello non si misurerà con le percentuali di voto di questa o di quell’altra forza quanto piuttosto con la capacità di convincere le forze politiche a sposare (misurandone domani l’effettiva realizzazione) un’agenda semplice che raccoglie aspettative e desideri di tutti coloro che ogni mattina si svegliano e s’impegnano per costruire un paese e una comunità migliori. 

Un’agenda desiderabile e realmente trasformativa. 

(166) Primi firmatari individuali 

Marco Aleotti

Giuditta Alessandrini

Albina Ambrogio

Maurizio Ambrosini

Stefano Arduini

Azio Barani

Anna Barbara

Alfonso Barbarisi

Pietro Barbieri

Andrea Battaglia

Leonardo Becchetti

Francesco Belletti

Marco Bentivogli

Maurizio Bergia

Giusi Biaggi

Livio Bertola

Luigi Bobba

Valentino Bobbio

Gianfranco Bologna

Riccardo Bonacina

Alessandra Bonoli

Sabrina Bonomi

Ivana Borsotto

Gianni Bottalico

Umberto Bovani

Stefania Brancaccio

Renato Briganti

Paolo Brogi

Mario Bruno

Luigino Bruni

Marco Bussone

Sandro Calvani

Maurizio Cantamessa

Davide Caramella

Roberto Casali

Mariangela Cassano

Silvia Cataldi

Ilaria Catastini

Gianfranco Cattai

Massimo Cermelli

Vittorio Coda

Luca Corazzini

Franz Coriasco

Padre Renato Chiera

Emma Ciccarelli

Francesco Cicione

Gianni Cicogna

Fabrizio Coccetti

Carla Collicelli

Don Virginio Colmegna

Stefano Comazzi

Francesca Corrao

Liliana Cosi

Massimiliano Costa

Marco Cremisini

Pinella Crimì 

Cecilia Dall’Oglio

Piervirgilio Dastoli

Giancarlo Debernardi

Luca De Biase

Riccardo De Facci

Alberto Felice de Toni

Pompeo della Posta

Francesca delle Vergini

Enzo d’Anna

Paolo De Maina

Giuseppina de Simone

Pasquale de Sole

Marco Didier

Alessandro Distante

Simona Di Ciaccio

Johnny Dotti

Marco Dotti

Flavio Felice

Francesco Ferrante

Alberto Ferrari

Daniele Ferrocino

Onelio Onofrio Francioso

Marco Frei

Elisa Furnari

Marina Galati

Gianluca Galletti

Fabio Gallo

Francesco della Giacoma

Elena Granata

Francesco Gagliardi

Marco Gargiulo

Claudio Gennero

Chiara Giaccardi

Maria Letizia Giorgetti Emanuela Girardi

Luca Gion

Giuseppe Guerini

Benedetto Gui

Rodolfo Guzzi

Marta Innocente

Maria Antonietta Intonti

Nuccio Iovene

Luca Jahier

Beppe Lanzi

Antonio Longo

Roberto Lo Russo

Mauro Magatti

Marcella Mallen

Marco Marchetti

Edoardo Marelli

Liviana Marelli

Alessandro Marescotti

Francesco Marsico

Alberto Mattioli

Mario Mauro

Massimo Mauro

Eugenio Mazzarella

Emanuela Megli

Guido Memo

Alessandro Miani

Franco Miano

Michele Michelotti

Gianni Milone

Silvio Minnetti

Eduardo Missoni

Sonia Mondin

Alessandro Morcione

Piergiuseppe Morone

Francesco Naso

Luigi Nodari

Andrea Olivero

Peppe Pagano

Edoardo Patriarca

Gabriele Pecchioli

Vittorio Pelligra

Paolo Perticaroli

Pier Luigi Petrillo

Prisco Piscitelli

Gianni Pompermaier

Ernesto Preziosi

Filippo Provenzano

Paolo Puppo

Dario Quarta

Marco Randellini

Ermete Realacci

Cristina Riccardi

Giorgio Ricchiuti

Stefania Ridolfi

Fausto Rinaudo

Eleonora Rizzuto

Daniele Rocchetti

Massimo Roj

Francesco Romizi

Alessandro Rosina

Ettore Rossi

Roberto Rossini

Giorgio Santini

Marianella Sclavi

Marcello Signorelli

Sabina Siniscalchi

Pierluigi Stefanini

Giulio Tarro

Tiziano Treu

Raffaele Troilo

Franco Vaccari

Paolo Venturi

Mauro Vergari

Santo Versace

Ivan Vitali

Flaviano Zandonai

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Luigi Bobba, “Imprese sociali: la sfida del RUNTS”

Mentre gli uffici regionali del RUNTS, stanno verificando i dati relativi alle Aps e alle Odv trasmigrate dai registri regionali, continua la crescita delle domande per le nuove adesioni, giunte a 8.012 di cui 3.163 già accolte. Contestualmente si è determinata una seconda trasmigrazione: quella delle imprese sociali. Infocamere ha riversato nel  RUNTS i dati di 23.411 imprese sociali iscritte nella sezione speciale del Registro. Di queste più di 3.700 sono in stato di liquidazione o fallimento, ma, per la complessa procedura ministeriale di cancellazione, sono ancora presenti nel Registro delle imprese. Grazie alla iniziativa di Unioncamere in collaborazione con Terzjus, si è avviata un’analisi desk delle “nuove” imprese sociali, ovvero sia di quelle che si sono costituite dopo il 20 luglio 2017 (data di entrata in vigore del dlgs n.112), sia di quelle che, pur essendo nate precedentemente, hanno chiesto il riconoscimento della qualifica di impresa sociale ai sensi della nuova normativa.

È emerso un quadro che rivela non poche novità. Innanzitutto lo stock di imprese sociali attive e inattive presenti nel Registro prima dell’avvio della riforma era pari a 16.252, di cui il 97,1% costituite nella forma di cooperative sociali. Un dato non inatteso in quanto era chiaro al legislatore che la qualifica di impresa sociale era fino ad allora quasi esclusivamente assunta dalle cooperative sociali. Se si considera invece il flusso dei  nuovi soggetti iscritti nella sezione speciale del Registro dal 20 luglio 2017 a fine 2021, si trovano 3.435 imprese; di queste, il 75,3% sono cooperative sociali. Dunque negli anni post riforma, le altre forme giuridiche – societarie e non – con le quali si può accedere alla qualifica di impresa sociale hanno conosciuto un incremento di un certo rilievo rispetto al periodo precedente. Il fenomeno è ancora più evidente se si esamina il trend dal luglio 2017 alla fine del 2021. Ebbene, di anno in anno, la composizione dell’universo delle imprese sociali è andata sempre più mutando con progressivi incrementi sia delle srl e società di capitali (passate dall’1,9% del 2017 al 24,3% delle iscrizioni del 2021), come anche delle forme giuridiche non societarie (dallo 0,8 del 2017 al 5,8% del 2021). Con il 2021, il rapporto delle nuove iscritte tra cooperative sociali (65,3%) e le altre forme di impresa sociale (34,7%) è mutato in modo palpabile.

È pur vero che i numeri assoluti sono ancora di entità modesta, ma anche i primi mesi del 2022 confermano la tendenza e anzi la rafforzano. Questi dati sembrano rispondere all’intento del legislatore di consentire ad altri soggetti di assumere lo status di impresa sociale. E tutto ciò nonostante le due norme fiscali di maggior favore, previste proprio per incentivare la nascita di start-up sociali, non siano ancora entrate in vigore. Ovvero la detrazione/deduzione del 30% sul capitale investito nella nuova impresa e l’azzeramento dell’aliquota fiscale sugli utili interamente reinvestiti. In attesa che il Governo ponga fine ad un ormai ingiustificato ritardo nell’inviare alla Commissione Europea queste due norme (come pure anche quelle sui regimi fiscali degli ETS), vi sono altre opportunità presenti sia nel dlgs 112/2017, sia anche in alcune recenti modifiche legislative che potrebbero fare da volano allo sviluppo di questa originale forma di impresa. Mi riferisco da un lato alla possibilità di coinvolgere nella compagine sociale soggetti profit o soggetti pubblici purché non detengano il controllo dell’impresa stessa. Dall’altro, alla creazione di un ramo di impresa da parte degli Enti ecclesiastici in particolare nel campo educativo e formativo, grazie al chiarimento intervenuto con la modifica contenuta nella l.108/2021. Infine, al decollo del social lending, ora del tutto operativo (prima serviva un decreto del MEF mai arrivato), che potrebbe favorire la raccolta di risparmio da privati per prestiti ad imprese sociali.

Nel frattempo, sempre per iniziativa di Unioncamere, Terzjus in collaborazione con Italia non profit, sta realizzando un’indagine esplorativa su circa 200 nuove imprese sociali per studiarne i caratteri e verificare se presentano effettive novità rispetto alle quelle pre riforma. Infine, per iniziativa del prof. Antonio Fici, insieme con l’Università di Tor Vergata, si sta procedendo alla traduzione e al commento in inglese delle nuova normativa sulle imprese sociali, nell’intento – come era accaduto per le coop sociali – di esportarne i caratteri più innovativi in ambito comunitario.

pubblicato su «Corriere Buone Notizie» di martedì 14 giugno 2022

Luigi BobbaLuigi Bobba, “Imprese sociali: la sfida del RUNTS”
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Luigi Bobba: “La via italiana al sistema duale”

Il 12 maggio, presso la Sala Lisbona del Salone Internazionale del Libro 2022“Cuori selvaggi”, si è tenuta la tavola rotonda sul volume a cura di Ludovico Albert e Daniele Marini La valutazione dell’esperienza duale nell’istruzione e formazione professionale (Il Mulino, 2022). Sono intervenuti Ludovico Albert, Luigi Bobba, Elena Chiorino, Nicola Crepax, Francesco Profumo, Raffaele Tangorra.

Nell’ambito delle politiche per il lavoro, il PNRR riconosce al sistema duale(basato sull’alternarsi di momenti formativi in aula e di formazione pratica in contesti lavorativi) un ruolo chiave per la formazione dei giovani e per il loro inserimento nel mondo del lavoro. La Fondazione per la Scuola, in collaborazione con Forma (Associazione Nazionale degli Enti di Formazione Professionale), ha condotto un’indagine per approfondire gli effetti dell’applicazione e dell’entrata a regime del sistema duale avviato nel 2016 e per individuare proposte e indicazioni che ne rafforzino il radicamento e la diffusione nella prospettiva di sviluppo indicata. Nel presentarne i risultati, questo libro apre alcune riflessioni cruciali sulla necessità di personalizzare i percorsi di formazione oltre le competenze certificate da diplomi e qualifiche professionali. Sistema duale e apprendistato assumeranno in un futuro prossimo un ruolo innovativo per l’accompagnamento delle nuove generazioni verso il lavoro, in un percorso progettato congiuntamente da chi ha le responsabilità della formazione e chi quelle dell’assunzione.

Ludovico Albert già direttore del Settore Istruzione Formazione e Lavorodella Regione Piemonte e della Regione Sicilia, è presidente della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo. Per molti anni ha insegnato nella scuola, impegnandosi in sperimentazioni legate a contesti difficili. Daniele Mariniè professore di Sociologia dei processi economici all’Università di Padova e Direttore Scientifico della divisione Research&Analysis di Community. Con il Mulino ha pubblicato «Fuori classe. Dal movimento operaio ai lavoratori imprenditivi della Quarta rivoluzione industriale» (2018).

Qui di seguito l’incipit all’intero saggio di Luigi Bobba, “La via italiana al sistema duale”, contenuto nel volume.

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La via italiana al sistema duale
di Luigi Bobba

1. Alle origini

Quando a fine febbraio 2014 sono stato nominato sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ho proposto al ministro Giuliano Poletti di assegnarmi, tra le altre, anche le deleghe per la formazione professionale e le politiche attive del lavoro. Una scelta non casuale, in quanto nella mia storia sociale e professionale ho coltivato quei temi in modo assiduo, prima avviando (1987) il Movimento Primo Lavoro, un’esperienza di orientamento e sostegno per l’inserimento al lavoro dei giovani; poi, verso la fine degli anni Novanta con diverse pubblicazioni, con la presidenza dell’Enaip(Ente nazionale Acli istruzione professionale); infine, tra il 2008 e il 2013, con la vicepresidenza della Commissione Lavoro della Camera dei deputati. Con l’affidamento da parte dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi di un incarico di governo avevo dunque l’occasione per provare a realizzare quanto avevo studiato e verificato sul campo. (segue).

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Luigi Bobba: con l’Action Plan UE un cambio di passo

Non è solo un cambio di nome. Se nel decennio passato i programmi e le iniziative della Commissione Europea nel campo dell’economia socialeerano stati ricompresi nella “Social Businnes Initiative”, ora, con il varo – nel dicembre scorso – del “Social Economy Action Plan”, siamo ad un cambio di orientamento culturale, al riconoscimento di soggetti che, nel campo economico ed imprenditoriale, non agiscono solo in forza dello scambio per il guadagno (business), ma sono orientati invece da principi di reciprocità e di solidarietà.

Se l’obiettivo di fondo del Piano d’azione per l’economia sociale è valorizzare e rafforzare un’economia al servizio delle persone, allora per gli Enti del Terzo settore, pur nella varietà delle loro configurazioni giuridiche ed organizzative, si presenta come un’opportunità: rimettersi in gioco per attraversare questo tempo di trasformazione, non subendo gli eventi, ma mettendosi in sintonia con il sentire delle generazioni più giovani.

Il piano prevede, per i prossimi anni, tre importanti azioni: una Raccomandazione del Parlamento Europeo sulla materia; un nuovo Portale informativo e promozionale; un Centro europeo di competenze per l’innovazione sociale. Obiettivi non facili da realizzare, ma decisivi per  vincere la sfida che è stata lanciata. Sulla strada si troveranno due ostacoli da superare: l’assenza nella UE di un perimetro giuridico che individui in modo certo i soggetti dell’economia sociale e la mancanza di strumenti appropriati e universalmente accettati per la misurazione dell’impatto sociale delle misure che verranno finanziate.

Sono due punti sui quali Terzjus – l’Osservatorio giuridico del Terzo settore – ha attirato l’attenzione della Commissione e che sono stati altresì ripresi nel documento finale dell’incontro dei delegati dei Governi all’Economia sociale, riunitisi a di Parigi nel marzo scorso. Certo, non si deve prendere la strada di puntuali e analitiche definizioni giuridiche dei soggetti che compongono il variegato mondo dell’economia sociale; piuttosto – come è stato fatto del Codice del Terzo settore – riconoscerli mediante indicatori circa le loro attività e le modalità di realizzazione delle stesse. In secondo luogo, sarebbe opportuno ripartire dal lavoro fatto dagli esperti del GECES per trovare rapidamente una metrica volta a verificare l’impatto degli interventi a finalità sociale.

Accanto a queste scelte dirimenti, il Terzo settore  italiano – proprio cogliendo l’opportunità del Piano di azione dell’economia sociale – , può meglio definire le sue traiettorie di futuro provando a diventare un vettore decisivo dell’inclusione sociale; a rafforzare il ruolo di sentinella dei territori e delle persone dimenticate; e, infine, ad essere un attore non subalterno dei processi di digitalizzazione dell’economia e della vita sociale. Una bella sfida non solo per il Terzo settore, ma anche per l’intero Paese.

editoriale di Luigi Bobba, presidente di Terzjus, pubblicato a pag. 1 dell’inserto L’Economia Civile di «Avvenire» del 4 maggio 2022

Luigi BobbaLuigi Bobba: con l’Action Plan UE un cambio di passo
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«Il Primo Maggio “battezzato”» di Sara Simone e Luigi Bobba

Il Primo Maggio “battezzato”

di Sara Simone e Luigi Bobba

«Mettere tonaca e berretta al “Primo Maggio”». Questa l’accusa che, a metà degli anni cinquanta del XX secolo, veniva mossa ai lavoratori riuniti nelle Acli, Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, organizzazione che in quegli anni assunse non solo una funzione di mediazione culturale, ma di spinta profetica e popolare, proprio sul tema del Primo Maggio. 

Dalle Acli così rispondevano: 

Si è preteso di fare del Primo Maggio una festa marxista; esso non è nato in camicia rossa. È nato nella lontana America, in ambienti e tra uomini non solo refrattari ma ostili al comunismo: è nato come affermazione del diritto del lavoratore ad un orario meno massacrante, a migliori condizioni per la sua opera. Ed ha continuato a simbolizzare le rivendicazioni degli operai e dei contadini. Soltanto più tardi i comunisti hanno tentato di appropriarsene.

A quel tempo le Acli avevano una loro festa del lavoro – il 15 maggio, giorno della promulgazione nel 1891 dell’enciclica sociale Rerum Novarum di papa Leone XIII –  in concorrenza con il Primo Maggio, celebrato in seguito alla deliberazione del congresso di Parigi della Seconda Internazionale il 20 luglio 1889. In quell’occasione si era proposto di organizzare una manifestazione simultanea in una data stabilita, uguale per tutti i paesi e città, in tutto il mondo, durante la quale i lavoratori potessero chiedere alle pubbliche autorità di contenere per legge entro le otto ore la giornata lavorativa. Come data era stata scelto il Primo Maggio, a memoria della grande manifestazione operaia che tre anni prima, il 1° maggio 1886, a Chicago, era stata repressa nel sangue. Le azioni contro le lotte dei lavoratori che tra il 1867 e il 1887 colpirono Chicago e l’Illinois, avevano generato un moto di grande solidarietà internazionale e internazionalista.

Un Primo Maggio per i cattolici

Risultava difficile per i cattolici trovarsi a proprio agio nei confronti del sindacalismo ispirato dal marxismo, che parlava di lotta di classe e considerava la chiesa fra le forze reazionarie da combattere, senza spazi di mediazione. Fin dai primi anni del novecento il movimento cattolico si confrontava con il sindacalismo socialista e cercava spazi di alterità, tentando di contrastarne la pretesa esclusività sulla festa del Primo Maggio. Quel sano confronto ideale, dagli indubbi risvolti politici, era stato interrotto dal fascismo con la proibizione della celebrazione del Primo Maggio: nel ventennio il festeggiamento dei lavoratori fu anticipato al 21 aprile, per farlo coincidere con il Natale di Roma.

All’indomani della “liberazione” del 25 aprile 1945, il Primo Maggio diventerà in Italia festa di partigiani e lavoratori, di anziani militanti e giovanissimi con nessuna memoria di quella festa, salvo ritrovarsi tutti insieme nelle piazze in un clima di grande entusiasmo. Appena due anni, e il Primo Maggio del 1947, si verificherà in Sicilia la strage di Portella Della Ginestra, vicino Palermo, dove gli uomini del bandito Giuliano fanno fuoco sui braccianti che assistono al comizio, uccidendo 14 lavoratori.

Pur se a fatica, le manifestazioni promosse dalla compagine cattolica riusciranno in alcuni territori ad avere un certo successo e partecipazione degna di considerazione, talora quasi in grado di controbilanciare quella dei movimenti socialisti. Un caso significativo divenne quello dell’area bresciana, dove i gruppi di lavoratori cattolici erano fortemente radicati sul territorio, in particolare nelle campagne e nei borghi rurali. 

Se la città resta sotto l’egida delle forze di ispirazione socialista, in provincia si afferma un Primo maggio “cattolico” che abbandona ogni riferimento alla dimensione del conflitto: la festa di “tutti i lavoratori” celebra la collaborazione, lo sviluppo ordinato, la concordia tra le classi.»

Non durò troppo a lungo questo tentativo di instaurare una pacifica convivenza. «Di lì a qualche decennio, tali divisioni di fondo sarebbero diventate vere e proprie fratture, segnando la storia del sindacalismo italiano». 

Negli anni cinquanta, il Primo Maggio subisce l’influenza del nuovo quadro politico: terminata l’alleanza tra i tre partiti di massa (Dc, Pci e Psi) e De Gasperi, si avvia la nuova fase dei governi centristi con l’appoggio della destra parlamentare: una frattura che coinvolge anche il fronte sindacale e la festa dei lavoratori, che diventa terreno di scontro, un’occasione per misurare i rapporti di forza.

Sarà merito delle Acli se, a partire dal 1955, il mondo cattolico si sarebbe aperto alla festa dei lavoratori, sentita fino ad allora come tradizione prevalentemente “socialista”, apportandovi il contributo originale della cultura cristiana. In quell’anno si calcolavano in 65, le ricorrenze del Primo Maggio, dalle quali i lavoratori cristiani si erano per lo più tenuti in disparte. 

Già il 1° maggio 1954 un piccolo gruppo di aclisti, in vista dell’anno in cui ricorreva il decennale dalla fondazione delle loro associazioni, aveva partecipato alle manifestazioni dei lavoratori a Roma; l’anno dopo, le Acli erano pronte a lanciare il loro “Primo Maggio cristiano” con il motto: «Con Cristo per la classe lavoratrice». I lavoratori cattolici si riunirono a Roma giungendo da tutta Italia: trenta treni speciali erano stati approntati per l’occasione e oltre 2500 pullman portarono nella capitale una colorata folla in costumi folcloristici rappresentanti dei territori di provenienza o in abiti da lavoro, con vessilli, bandiere, cartelli e striscioni.

Svettava un grande globo di cartapesta attraversato dalla scritta «Lavoratori di tutto il mondo unitevi nell’insegnamento di Cristo», che declinava dal punto di vista cattolico il motto socialista per eccellenza, «Proletari di tutti i Paesi, unitevi!», derivato dalla chiusa del Manifesto del partito Comunista del 1848. Il cardinale Adeodato Giovanni Piazza celebrò la messa del mattino per tutti gli aclisti convenuti in piazza del Popolo, dall’altare allestito su una grande incudine: scelta di forte impatto simbolico. Nel pomeriggio, una delegazione delle Acli depose una corona sulla tomba del Milite Ignoto e poi il corteo si mosse verso il Vaticano. Durante l’udienza pontificia organizzata in piazza san Pietro per l’occasione, papa Pio XII annunciò l’istituzione della festa liturgica di san Giuseppe artigiano, proclamato protettore dei lavoratori. Erano più di 200.000 gli aclisti convenuti a Roma per l’occasione, accompagnati da un gruppo di vescovi, tra i quali Giovanni Battista Montini, al tempo arcivescovo di Milano. 

Ecco le parole che Pio XII pronunciò quel Primo Maggio, parlando alle Acli:

Fin dalle origini, Noi mettemmo le vostre associazioni sotto il potente patrocinio di san Giuseppe. Non vi potrebbe essere infatti miglior protettore per aiutarvi, per far penetrare nella vostra vita lo spirito del Vangelo. Come invero allora dicemmo, dal cuore dell’Uomo-Dio, Salvatore del mondo, questo Spirito affluisce in voi e in tutti gli uomini, ma è pure certo che nessun lavoratore ne fu mai tanto perfettamente e profondamente penetrato quanto il padre putativo di Gesù, che visse con lui nella più stretta intimità e comunanza di famiglia e di lavoro. Così, se voi volete essere vicini a Cristo, noi anche oggi vi ripetiamo: Ite ad Joseph Andate da Giuseppe!

Sì, diletti lavoratori, il papa e la chiesa non possono sottrarsi alla divina missione di guardare, proteggere, amare soprattutto i sofferenti, tanto più cari quanto più bisognosi di difesa e di aiuto,  siano essi operai, o altri figli del popolo. Questo dovere e impegno, noi, vicario di Cristo, desideriamo di altamente riaffermare, qui, in questo giorno del Primo Maggio, che il mondo del  lavoro ha aggiudicato a sé come propria festa con l’intento che da tutti si riconosca la dignità del lavoro e che questa ispiri la vita sociale e le leggi, fondate sull’equa ripartizione di diritti e doveri.

Concludeva Pio XII:

In tal modo – accolto dai lavoratori cristiani e quasi ricevendo il crisma cristiano -, il Primo Maggio, ben lungi dall’essere risveglio di discordie, di odio e di violenza, è e sarà un ricorrente invito alla moderna società per compiere ciò che ancor manca alla pace sociale. Festa cristiana, dunque, come giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani nella grande famiglia del lavoro. Affinché vi sia presente questo significato, e in certo modo quale immediato contraccambio per i numerosi e preziosi doni, arrecatici da ogni regione d’Italia. Amiamo di annunziarvi la nostra determinazione di istituire – come di fatto istituiamo – la festa liturgica di san Giuseppe Artigiano, assegnando ad essa precisamente il giorno Primo Maggio.

Con enfasi Dino Penazzato, l’allora presidente delle Acli, definì quel giorno «il grande battesimo cristiano del Primo maggio». Il discorso di Pio XII ricordò quando la Chiesa aveva ufficialmente riconosciuto le Acli, nell’udienza dell’11 marzo 1945, ponendole sotto il patrocinio di san Giuseppe, indicato come figura esemplare per i lavoratori cristiani. Le Acli fecero sfilare davanti al pontefice i simboli del lavoro dell’uomo, in un clima di solennità, per quella che era una giornata memorabile per la storia dell’associazione. 

In polemica rispetto all’anticlericalismo diffuso in quegli anni di dure lotte operaie e di aspre polemiche che dividevano le associazioni sindacali italiane, le Acli erano incoraggiate dal pontefice a perseverare nel loro attivismo, purché rimanessero fedeli al servizio della causa cattolica e entro gli insegnamenti dottrinali della Chiesa. 

Il pontefice ammoniva:

Da lungo tempo purtroppo il nemico di Cristo semina zizzania nel popolo italiano, senza incontrare sempre e dappertutto una sufficiente resistenza da parte dei cattolici. Specialmente nel ceto dei lavoratori esso ha fatto e fa di tutto per diffondere false idee sull’uomo e il mondo, sulla storia, sulla struttura della società e della economia. Non è raro il caso in cui l’operaio cattolico, per mancanza di una solida formazione religiosa, si trova disarmato, quando gli si propongono simili teorie; non è capace di rispondere, e talvolta persino si lascia contaminare dal veleno dell’errore.

Contro l’«umanesimo laico» e il «socialismo purgato dal materialismo», la Chiesa appoggiava il programma delle Acli «che esige la partecipazione effettiva del lavoro subordinato nella elaborazione della vita economica e sociale della Nazione e chiede che nell’interno delle imprese ognuno sia realmente riconosciuto come un vero collaboratore». Era l’occasione per dare una nuova prospettiva alla festa dei lavoratori: 

Questo dovere ed impegno noi, vicario di Cristo, desideriamo di altamente riaffermare, qui, in questo giorno del 1° maggio, che il mondo del lavoro ha aggiudicato a sé, come propria festa, con l’intento che da tutti si riconosca la dignità del lavoro, e che questa ispiri la vita sociale e le leggi, fondate sull’equa ripartizione di diritti e di doveri.

Il Primo Maggio veniva così “consacrato”: 

In tal modo accolto dai lavoratori cristiani, e quasi ricevendo il crisma cristiano, il 1° maggio, ben lungi dall’essere risveglio di discordie, di odio e di violenza, è e sarà un ricorrente invito alla moderna società per compiere ciò che ancora manca alla pace sociale. Festa cristiana, dunque; cioè, giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglia del lavoro.

Anche L’Osservatore Romano diede ampio spazio agli eventi di quella giornata titolando in prima

pagina: Il Sommo Pontefice alle Acli e ai lavoratori di tutti i popoli. La presenza di Cristo e della Chiesa nel mondo operaio – Il 1° Maggio solennità cristiana. Alla notizia furono interamente dedicate tre delle sei pagine dell’edizione del giorno, una delle quali completamente occupata dal racconto fotografico dell’evento. 

L’eco di quanto era avvenuto in piazza San Pietro trovò ampio spazio sulle pagine di tutti i quotidiani nazionali. Anche Avanti! diede una sua lettura di quello che veniva comunque interpretato come un positivo riconoscimento che tutti i lavoratori, in fondo, erano uniti nelle loro aspirazioni di giustizia sociale: nei cartelli e striscioni che gli aclisti esponevano «risultava chiaramente come in alcun modo le esigenze, le istanze che pongono i lavoratori cattolici, siano diverse da quelle che, in un’altra piazza di Roma, avanzavano gli altri lavoratori nel comizio della Cgil».

Il punto di vista del mondo degli industriali era diverso e vedeva nel Primo Maggio delle Acli la volontà di porsi come linea distinta e alternativa rispetto a quella socialista. Il Giornale d’Italia, in

quegli anni di proprietà di Confindustria, riportava le dichiarazioni degli «ambienti direttivi» delle Acli, che presentavano la manifestazione romana come un segnale dell’attivismo cattolico in prima linea nella difesa degli interessi e dei diritti dei lavoratori, sfilando alle «forze marxiste» il monopolio sul mondo del lavoro. 

Non a caso l’attività delle Acli venne posta sotto la protezione di san Giuseppe, figura che doveva essere di esempio non solamente come lavoratore operoso e sollecito sostegno della famiglia, ma anche per le sue virtù di pazienza, mitezza, umiltà. Un modello che voleva contrastare quelli che su altri fronti erano i richiami allo scontro duro e alla “lotta di classe”, dai quali la chiesa tentava di tenere lontani e distinti i lavoratori cattolici.

La verità è che, con la manifestazione del Primo Maggio 1955, tenutasi prima in piazza san Pietro con la celebrazione dell’Eucarestia e poi in piazza del Popolo con una grande adunata popolare con più di 50.000 persone, le Acli avevano stabilito che il lavoro – la sua difesa e promozione – non era monopolio della tradizione socialista e successivamente anche di quella comunista, ma trovava piena legittimazione nella dottrina sociale della chiesa e nelle molte opere che le stesse Acli promuovevano per elevare le condizioni di vita della classe lavoratrice.

Due dedicazioni e una statua 

In quanto al contenuto strettamente liturgico del Primo Maggio religioso, non furono le Acli a scegliere di dedicare la festa a san Giuseppe. Per rimarcare la concezione cristiana del lavoro, la figura di riferimento individuata dagli aclisti era stata quella di Gesù negli anni giovanili, quando a Nazareth condivideva con Giuseppe, padre putativo, la dimensione quotidiana del lavoro di falegname. Gli aclisti intendevano consacrare il 1° Maggio a “Gesù lavoratore”, al “Cristo divino lavoratore”, in un’immagine che unificasse il lavoro umano e la partecipazione del lavoratore all’attività creativa di Dio. In questo erano fedeli alla vocazione antica delle Acli come luogo di formazione e di opere sociali a favore delle persone più deboli e indifese, strumento di promozione del lavoro quale valore essenziale di una comunità civile. 

D’altro lato, ancor prima del grande Primo Maggio 1955, proprio Pio XII aveva accolto gli aclisti nella basilica di san Pietro, il 14 maggio 1953, dichiarando ai lavoratori il suo «tenero affetto, simile a quello che nutriva e nutre per essi Gesù, il divino Lavoratore di Nazareth». 

Di fatto, i militanti e dirigenti aclisti coglievano la contraddizione tra le due pronunce del papa, non riuscendo ad accettare la sua opzione del 1955, con l’accantonamento liturgico di Gesù Divin Lavoratore. 

Per il Primo Maggio del 1956, su iniziativa delle Acli milanesi, idearono qualcosa di straordinario che resterà nell’iconografia non solo dell’associazione ma dell’intero paese. L’organizzazione si preparò con il consueto spirito filiale e disciplinato, a celebrare per la prima volta la festa dei lavoratori sotto l’egida di san Giuseppe artigiano, però, quando si trattò di commissionare la statua da presentare nel primo Primo Maggio a contenuto di festa religiosa, come simbolo dell’impegno aclista e di tutti i lavoratori cattolici, fu scelta la figura di Cristo divino lavoratore. La piccola scultura, alta 135 cm, fu realizzata in bronzo dorato da Enrico Nell Breuning e portata in piazza del Duomo a Milano il 1° maggio 1956 dove venne benedetta dall’arcivescovo Montini.

La piazza era gremita e le Acli avevano organizzato con grande solennità quella giornata. La festività liturgica fu accompagnata dai discorsi del presidente del Consiglio Antonio Segni e del presidente centrale delle Acli Dino Penazzato, che colse l’occasione per ribadire la sua linea delle “tre fedeltà”. Uno spirito più internazionale fu dato dalla presenza di 23 delegati stranieri, fra i quali il delegato dell’Azione Cattolica Operaia francese, un lavoratore del Camerun, rappresentanti dalla Cina e dal Vietnam. Era quella che con una certa pomposità il Corriere della Sera avrebbe definito «la Prima Internazionale cristiana». 

Un videomessaggio di Pio XII garantì la vicinanza e il sostegno della Chiesa alle Acli. Dopo la messa e il ricordo dei caduti in guerra e sul lavoro, venne benedetta la statua bronzea che ufficialmente rappresentava Cristo divino lavoratore. Le Acli intendevano donare la statua a papa Pio XII, per celebrare l’ottantesimo compleanno che il pontefice aveva compiuto il 2 marzo di quel 1956. Per questo, la scultura fu subito portata in elicottero a Linate, trasferita in aereo a Ciampino e da lì di nuovo in elicottero al sagrato della basilica di san Pietro. Il volo della statua sui cieli di Roma fu un evento memorabile e venne ripreso anche dalla televisione quasi fosse un segno dei tempi.

Nonostante la pioggia scrosciante, gli aclisti attesero per ore, con pazienza, l’arrivo della statua. Il “Divino Lavoratore” fu salutato dalla folla e dal papa, che si affacciò dalla finestra del suo studio per impartire la benedizione alla folla radunata per la festa cristiana dei lavoratori. Il giorno successivo la statua venne benedetta da Pio XII, che la salutò inizialmente come effige di san Giuseppe. Quando l’assistente ecclesiastico centrale degli aclisti, don Luigi Civardi, obiettò che si trattasse in realtà di una statua che rappresentava Gesù, venne alla fine accolto dal pontefice il titolo di “divino lavoratore”, che salvava l’aspetto divino e non ne esaltava quello “classista” che la semplice dizione di “Gesù lavoratore” evocava, con gran timore di teologi e liturgisti del tempo.

Non è difficile sentire in quella “duplice lettura” della stessa statua la sintesi ermeneutica di un dibattito complesso: da una parte il cattolicesimo popolare rappresentato dalle Acli che vedeva in essa con favore ed entusiasmo la raffigurazione di Gesù Lavoratore; dall’altra i vertici della chiesa che mostravano perplessità su quell’identificazione e preferivano la più tradizionale e rassicurante versione del san Giuseppe artigiano.

Nel mezzo di quel dibattito, accadde che il 2 maggio 1956 la delegazione internazionale guidata dal presidente delle Acli Dino Penazzato, in udienza dal papa per la benedizione della statua di controversa identificazione, si ritrovasse ad assistere alla benedizione papale per l’immagine di  san Giuseppe artigiano. Papa Pacelli, evidentemente, restava convinto della sua posizione.

La chiesa si muoveva cautamente, ma si muoveva. E anche dalle fila socialiste si apprezzava l’apertura. Il sindacalista e deputato del Psi Fernando Santi scriveva dalle colonne di Avanti!:

Il fatto che i lavoratori cattolici – i lavoratori cioè che ispirano la loro azione sociale agli insegnamenti della Chiesa – festeggiano anch’essi e ufficialmente il Primo Maggio – considerato nel passato recente e remoto come manifestazione dalla quale rifuggire – suggerisce alcune considerazioni che acquistano un particolare sapore nell’attuale momento. In primo luogo viene spontanea la constatazione della inarrestabile evoluzione dei tempi e del sia pur lento e cauto adeguarsi ad essi della Chiesa. In sostanza le idee giuste ed umane – come quella della liberazione del lavoro da ogni sfruttamento, idea che caratterizza, che dà significato appunto alla festa internazionale del lavoro – camminano forte. Camminano anche con le ali degli angeli e le aureole dei santi. Questo vuol dire che si accorciano le distanze fra i lavoratori cattolici ed i lavoratori che militano nelle organizzazioni di classe, e che sempre più si fa strada la consapevolezza della identità degli interessi economici e sociali contro i quali è schierato unito il chiuso mondo dell’egoismo e del privilegio. […] In sostanza, vogliamo le stesse cose, che si riassumono in una condizione umana di vita per gli operai, per i contadini, per gli impiegati, che salvaguardi ed esalti la dignità e la personalità del lavoratore […].

L’edizione milanese di Avanti! del 3 maggio 1956, apriva con l’annuncio in prima pagina: Nella piazza del Duomo di Milano si è aperto il dialogo tra C.G.I.L. e A.C.L.I., lasciando intendere che il popolo delle Acli era attratto da spirito di unione con i lavoratori militanti «nei partiti e nei sindacati di classe» nonostante la «strana favola» raccontata da Penazzato, che invitava i lavoratori tutti a confidare nella guida della chiesa che voleva dare nuovo spazio di speranza alle loro aspirazioni. Il giornale socialista sosteneva che erano i lavoratori cattolici a doversi liberare «dalle ipoteche della Confintesa sul loro stesso movimento» e dalle pericolose aperture verso destra della Democrazia Cristiana.

Si comprende, quindi, la cautela della Chiesa e della presidenza Acli, che non volevano rischiare fraintendimenti e strumentalizzazioni. Il messaggio del pontefice aveva chiaramente ribadito che il dovere e la ragion d’essere delle Acli dovevano essere indirizzati prioritariamente a diffondere il messaggio cristiano di amore e giustizia, non a porsi in concorrenza con altri o a cercare altre vie di solidarietà di categoria. La statua del “Cristo lavoratore” donata al papa doveva simboleggiare questa prospettiva, il che spiega perché sarebbe stata destinata per un periodo alla parrocchia romana intitolata a “Gesù Divino Lavoratore”, nella chiesa voluta e finanziata delle Acli, costruita a piazza della Radio, a meno di un chilometro dall’attuale sede nazionale degli aclisti in via Marcora, dove la statua avrebbe poi trovato definitiva sede.

La singolare storia della statua dai due volti si era allungata di ulteriori capitoli. In occasione del cinquantenario di fondazione dell’Associazione, la statua, caduta nell’oblio, venne tratta da un polveroso scantinato della sede nazionale delle Acli. Il Primo dell’anno successivo, venne portata ancora una volta in piazza san Pietro, dove  Giovanni Paolo II  – il papa che era stato lui stesso un lavoratore – aveva celebrato la messa di fronte a più di 50.000 fedeli, invitando le lavoratrici e i lavoratori cristiani a restare fedeli all’originaria vocazione di promozione della dignità della  persona e di testimonianza del Vangelo .

Dieci anni dopo, nel 2005, sempre il Primo Maggio, la statua, ormai simbolo aclista per eccellenza, sarebbe tornata in piazza San Pietro per le celebrazioni del 60° anniversario della fondazione, alla presenza di papa Benedetto XVI. Alla recita del Regina Coeli  da parte di papa Benedetto XVI, da poco eletto, le Acli portarono la statua sopra un baldacchino. Il papa salutò con calore le Acli, chiedendo di non dimenticare le persone che erano senza lavoro, in particolare i giovani.

Il 23 maggio 2015, nel corso dell’incontro con le Acli in aula Paolo VI, papa Francesco è tornato a benedire la statua, che le Associazioni Cristiane dei Lavoratori erano tornate a presentare come statua di Cristo lavoratore e non di san Giuseppe artigiano. 

In piena pandemia, papa Francesco ha accolto la richiesta del presidente aclista Roberto Rossini di ospitare la statua, così ricca di mistero e di storia, ma anche di un’istanza profonda riguardante la teologia del lavoro, durante la messa celebrata alle 7 del mattino del Primo Maggio 2020 presso la cappella di santa Marta in Vaticano. 

La statua, che era stata posta a fianco all’altare, avrebbe ispirato, poco più di un mese dopo, l’8 giugno, la lettera che il papa ha indirizzato al vicario generale per la diocesi di Roma, il cardinale De Donatis. Vi stabiliva l’istituzione del fondo “Gesù Divino Lavoratore” a sostegno, tramite Caritas diocesana, di tutte le persone colpite dalla crisi economica degli ultimi anni, in particolare per «coloro che rischiano di rimanere esclusi dalle tutele istituzionali e che hanno bisogno di un sostegno che li accompagni, finché potranno camminare di nuovo autonomamente», un fondo che – come lo spirito che aveva fondato il Primo Maggio cristiano – ha scelto la figura del “divino lavoratore” «per richiamare la dignità del lavoro».

Il Primo Maggio del lavoratore cristiano, oggi

Nel frattempo, anno dopo anno, in Italia la festa dei lavoratori è diventata sempre più patrimonio comune e indiscusso. Dal 1990 i sindacati confederali della Cgil, Cisl e Uil hanno istituito la bella tradizione del “concertone” del Primo Maggio. Si tiene ogni anno a Piazza San Giovanni a Roma, con la partecipazione di molti gruppi musicali e cantanti che danno vita ad uno spettacolo trasmesso in diretta televisiva dalla Rai.

Va riconosciuto alle Acli il merito storico di aver favorito l’incontro fra la cultura socialista del movimento operaio e la cultura cattolica del lavoro, radicata nella dottrina sociale della chiesa. Come si è visto, furono in particolare le Acli di Dino Penazzato, caro alla memoria di tutti gli aclisti come “il presidente delle tre fedeltà” (alla classe lavoratrice, alla democrazia e alla chiesa), a creare le condizioni storico-culturali per fare del Primo Maggio la festa condivisa da tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro appartenenza culturale, di tradizione socialista, comunista e cattolica.

Bibliografia

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PIO XII,  Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XV, Città del Vaticano, Tipografia poliglotta vaticana, 1954

Santi F. Santi F., Abbiamo portato avanti il dialogo con i cattolici, in Avanti!, a. LX, n. s. n. 104, 1 maggio 1956

Spadaro A., Sereni S.,  A partire da Gesù lavoratore, in La Civiltà Cattolica, quaderno 4081, 2020

Weldemariam H., Tudini F., Nanni A., Raccontare le Acli, in Azione sociale, n. 5, 2005

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