Terzjus si trasforma in Fondazione e annuncia per settembre la pubblicazione del “Terzjus Report 2022”

Dopo due anni di vita e di attività, Terzjus – l’osservatorio giuridico del terzo settore – si trasforma e, da associazione, prende la forma di Fondazione e presenterà la richiesta all’ufficio del RUNTS della Regione Lazio per essere iscritto alla sezione “Altri ETS“.

La compagine dei soci ha deliberato la trasformazione alla presenza del notaio Nicola Riccardelli al fine di consolidare la struttura e le attività già in essere ma soprattutto per meglio rispondere allo scopo sociale per cui Terzjus era nato: essere uno strumento di studio, ricerca, approfondimento e proposta sul nuovo diritto del terzo settore con una prevalente attenzione alla riforma che ha interessato il vasto campo delle organizzazioni associative, di volontariatoe fondazionali nonché al mondo delle imprese sociali e della filantropia.

Alla Fondazione Terzjus ETS aderiscono come “partecipanti fondatori” 17 soci: Acli, Airc, Anbima, Anpas, Anspi, Assifero, Auser, Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Consiglio nazionale del Notariato, Consorzio Ambito Territoriale sociale n.3, e-IUS, Fish, Fondazione Italia Sociale, Forum nazionale del Terzo settore, Italia non profit, Rete Misericordia e solidarietà, Unpli; e due soci come “partecipanti aderenti”: AILPoliedros.

L’assemblea dei soci ha provveduto altresì a confermare il Presidente Luigi Bobba, il segretario generale Gabriele Sepio, il direttore scientifico Antonio Fici nonché  a nominare, come prescrive la legge, il sindaco revisorenella persona di Matteo Pozzoli.

Il calendario dei prossimi appuntamenti si presenta particolarmente intenso e ricco di novità: a luglio, la pubblicazione dell’ e-book “Professione volontario”(scaricabile dal sito di Terzjus) che contiene il report di ricerca su 10 casi aziendali di “volontariato di competenza“; a settembre poi, sarà presentato il “Terzjus Report 2022“, il secondo Rapporto sullo stato e le prospettive del diritto del terzo settore in Italia.

Per fine anno invece vedrà la luce il primo “European Terzjus Report” che analizzerà lo sviluppo della legislazione sul terzo settore nei diversi paesi della UE e nel diritto comunitario. In autunno è altresì previsto l’avvio del quarto ciclo dei “Quickinar di Terzjus“, brevi incontri formativi per illustrare questioni di attualità nonché la presentazione di una ricerca condotta per Unioncamere sulle “nuove” imprese sociali.

[Sara Vinciguerra]

Luigi BobbaTerzjus si trasforma in Fondazione e annuncia per settembre la pubblicazione del “Terzjus Report 2022”
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Luigi Bobba relatore al webinar “Le nuove linee guida della raccolta fondi per gli Enti del Terzo Settore”

Le nuove linee guida della raccolta fondi per gli Enti del Terzo Settore. Tutte le novità e l’impatto sulle organizzazioni e sui fundraise

Promosso da: Assif. Granter, Italia non profit
Con la partecipazione di Terzjus

Qui per iscriversi al webinar gratuito, mercoledì 29 giugno ore 14:30

Il 13 giugno 2022 sono state emanate le Linee guida della raccolta fondi degli Enti del Terzo Settore. In questa tavola rotonda esperti di legislazione del non profit e di raccolta fondi introdurranno il documento nella sua completezza, e discuteranno dell’impatto sulla vita delle organizzazioni e sul lavoro dei fundraiser.
I relatori della tavola rotonda sono:

  • Luigi Bobba: Presidente di Terzjus, già Sottosegretario al Ministero del Lavoro con delega al Terzo Settore
  • Nicola Bedogni: Fundraiser e Presidente Associazione Italiana Fundraiser
  • Niccolò Contucci: Direttore Generale Fondazione AIRC
  • Carlo Mazzini: Esperto di legislazione e fiscalità degli enti non profit
  • Mara Moioli: Co-founder e COO di Italia non profit
Luigi BobbaLuigi Bobba relatore al webinar “Le nuove linee guida della raccolta fondi per gli Enti del Terzo Settore”
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Luigi Bobba, “Imprese sociali: la sfida del RUNTS”

Mentre gli uffici regionali del RUNTS, stanno verificando i dati relativi alle Aps e alle Odv trasmigrate dai registri regionali, continua la crescita delle domande per le nuove adesioni, giunte a 8.012 di cui 3.163 già accolte. Contestualmente si è determinata una seconda trasmigrazione: quella delle imprese sociali. Infocamere ha riversato nel  RUNTS i dati di 23.411 imprese sociali iscritte nella sezione speciale del Registro. Di queste più di 3.700 sono in stato di liquidazione o fallimento, ma, per la complessa procedura ministeriale di cancellazione, sono ancora presenti nel Registro delle imprese. Grazie alla iniziativa di Unioncamere in collaborazione con Terzjus, si è avviata un’analisi desk delle “nuove” imprese sociali, ovvero sia di quelle che si sono costituite dopo il 20 luglio 2017 (data di entrata in vigore del dlgs n.112), sia di quelle che, pur essendo nate precedentemente, hanno chiesto il riconoscimento della qualifica di impresa sociale ai sensi della nuova normativa.

È emerso un quadro che rivela non poche novità. Innanzitutto lo stock di imprese sociali attive e inattive presenti nel Registro prima dell’avvio della riforma era pari a 16.252, di cui il 97,1% costituite nella forma di cooperative sociali. Un dato non inatteso in quanto era chiaro al legislatore che la qualifica di impresa sociale era fino ad allora quasi esclusivamente assunta dalle cooperative sociali. Se si considera invece il flusso dei  nuovi soggetti iscritti nella sezione speciale del Registro dal 20 luglio 2017 a fine 2021, si trovano 3.435 imprese; di queste, il 75,3% sono cooperative sociali. Dunque negli anni post riforma, le altre forme giuridiche – societarie e non – con le quali si può accedere alla qualifica di impresa sociale hanno conosciuto un incremento di un certo rilievo rispetto al periodo precedente. Il fenomeno è ancora più evidente se si esamina il trend dal luglio 2017 alla fine del 2021. Ebbene, di anno in anno, la composizione dell’universo delle imprese sociali è andata sempre più mutando con progressivi incrementi sia delle srl e società di capitali (passate dall’1,9% del 2017 al 24,3% delle iscrizioni del 2021), come anche delle forme giuridiche non societarie (dallo 0,8 del 2017 al 5,8% del 2021). Con il 2021, il rapporto delle nuove iscritte tra cooperative sociali (65,3%) e le altre forme di impresa sociale (34,7%) è mutato in modo palpabile.

È pur vero che i numeri assoluti sono ancora di entità modesta, ma anche i primi mesi del 2022 confermano la tendenza e anzi la rafforzano. Questi dati sembrano rispondere all’intento del legislatore di consentire ad altri soggetti di assumere lo status di impresa sociale. E tutto ciò nonostante le due norme fiscali di maggior favore, previste proprio per incentivare la nascita di start-up sociali, non siano ancora entrate in vigore. Ovvero la detrazione/deduzione del 30% sul capitale investito nella nuova impresa e l’azzeramento dell’aliquota fiscale sugli utili interamente reinvestiti. In attesa che il Governo ponga fine ad un ormai ingiustificato ritardo nell’inviare alla Commissione Europea queste due norme (come pure anche quelle sui regimi fiscali degli ETS), vi sono altre opportunità presenti sia nel dlgs 112/2017, sia anche in alcune recenti modifiche legislative che potrebbero fare da volano allo sviluppo di questa originale forma di impresa. Mi riferisco da un lato alla possibilità di coinvolgere nella compagine sociale soggetti profit o soggetti pubblici purché non detengano il controllo dell’impresa stessa. Dall’altro, alla creazione di un ramo di impresa da parte degli Enti ecclesiastici in particolare nel campo educativo e formativo, grazie al chiarimento intervenuto con la modifica contenuta nella l.108/2021. Infine, al decollo del social lending, ora del tutto operativo (prima serviva un decreto del MEF mai arrivato), che potrebbe favorire la raccolta di risparmio da privati per prestiti ad imprese sociali.

Nel frattempo, sempre per iniziativa di Unioncamere, Terzjus in collaborazione con Italia non profit, sta realizzando un’indagine esplorativa su circa 200 nuove imprese sociali per studiarne i caratteri e verificare se presentano effettive novità rispetto alle quelle pre riforma. Infine, per iniziativa del prof. Antonio Fici, insieme con l’Università di Tor Vergata, si sta procedendo alla traduzione e al commento in inglese delle nuova normativa sulle imprese sociali, nell’intento – come era accaduto per le coop sociali – di esportarne i caratteri più innovativi in ambito comunitario.

pubblicato su «Corriere Buone Notizie» di martedì 14 giugno 2022

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Save the date: martedì 14 Giugno 2022, Università di Siena

I PROFILI FISCALI DELLA RIFORMA DEL TERZO SETTORE
NELLA CORNICE DEI PRINCIPI COMUNITARI 

Aula Magna Accademia dei Fisiocritici
Martedì 14 Giugno 2022

CONVEGNO DI STUDI

ore 14.30 Saluti
FRANCESCO FRATI Magnifico Rettore, Università di Siena

STEFANO PAGLIANTINI Direttore, Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Siena
LUIGI BOBBA Presidente, Terzjus
LORENZO SAMPIERI Presidente, ODCEC di Siena
LUCIA SECCHI TARUGI Presidente, Ordine degli Avvocati di Siena

Presiede e coordina
FRANCESCO PISTOLESI Università di Siena

Introduzione
NICOLAS SCHMIT Commissario UE al Lavoro e ai diritti sociali
MARIA CECILIA GUERRA Sottosegretario al MEF
PATRIZIA TOIA Co-Presidente intergruppo sull’Economia sociale al Parlamento Europeo

ne discutono
THOMAS TASSANI Alma Mater Università di Bologna
GABRIELE SEPIO Terzjus
GIULIA BOLETTO Università di Pisa
FILIPPO DAMI Università di Siena

ore 18.00 Conclusioni
MARCO MICCINESI Università Cattolica del Sacro Cuore Milano

INFORMAZIONI E ADESIONI
www.congressi.unisi.it/profilifiscali

Università di Siena
DGIUR Dipartimento di Giurisprudenza
Terzjus – Osservatorio giuridico del Terzo settore

EVENTO ACCREDITATO AI FINI DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE DA:
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Siena
Ordine degli Avvocati di Siena

Luigi BobbaSave the date: martedì 14 Giugno 2022, Università di Siena
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Salone del Libro: “La valutazione dell’esperienza duale nell’istruzione e formazione professionale”

20 maggio, Ore 12:45-13:45

La valutazione dell’esperienza duale nell’istruzione e formazione professionale

Presentazione del libro curato da Ludovico Albert e Daniele Marini (Il Mulino)

Sala Lisbona, CENTRO CONGRESSI

In collaborazione con
Fondazione per la Scuola

Luigi BobbaSalone del Libro: “La valutazione dell’esperienza duale nell’istruzione e formazione professionale”
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Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa

Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa

Strasburgo, 27 aprile 2022

Signor Presidente dell’Assemblea Parlamentare,

Signora Segretaria Generale del Consiglio d’Europa,

Signore e Signori parlamentari,

Ambasciatrici e Ambasciatori,

Signore e Signori,

sono lieto di potermi indirizzare a questa Assemblea che esprime nel modo più largo il sentimento dei popoli d’Europa.

È per me motivo di grande soddisfazione effettuare a Strasburgo – sede di molteplici istituzioni europee – il primo viaggio all’estero da quando il Parlamento italiano e i rappresentanti delle Regioni hanno voluto conferirmi nuovamente l’incarico di Presidente della Repubblica Italiana.

Rendo omaggio al Consiglio d’Europa, alle sue Istituzioni, a voi che siete espressione dei Parlamenti di 46 Paesi membri, in rappresentanza di 700 milioni di cittadine e cittadini europei.

Permettetemi un ringraziamento particolare al Presidente Tiny Kox per questa opportunità che mi offre e mi consente, per le sue parole così gentili; e grazie a tutti voi per l’accoglienza.

Porgo un saluto caloroso alla Segretaria Generale Marija Pejčinović Burić, la cui guida in questa Organizzazione considero preziosa, come ho avuto modo di dirle nel nostro incontro dello scorso novembre, al Palazzo del Quirinale, e di ribadirle nell’incontro che abbiamo avuto questa mattina.

Il Consiglio d’Europa ha sempre avuto la vocazione a essere la “casa comune europea” e ha saputo svilupparla nei decenni che hanno fatto seguito alla sua istituzione, come testimonia anche la sua attuale ampia rappresentatività.

Una casa che, se è stata specchio fedele delle divisioni e delle difficoltà manifestatesi fra le diverse comunità nazionali, ha saputo essere anche, e soprattutto, espressione del coraggio di unità dell’Europa, spesso prefigurando quanto si è potuto successivamente costruire, sotto altri profili e in altri ambiti, come la Unione Europea.

Tanti i traguardi di civiltà conseguiti dal Consiglio d’Europa. Sul terreno della abolizione della pena di morte, della lotta al razzismo, della libertà di espressione, della tutela della diversità culturale, della protezione dei diritti dei bambini, dello sviluppo di politiche per la gioventù.

Inoltre, parafrasando il mugnaio di Potsdam, nel nostro Continente si può dire: “c’è un giudice a Strasburgo”, con l’attività sviluppata dalla Cedu, frutto della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, sottoscritta a Roma.

Il Consiglio d’Europa ha saputo, cioè, consolidare le prerogative dei cittadini, aggiungendo alla tutela dei singoli ordinamenti statali quella derivante dalla applicazione della convenzione, in casi di violazione di diritti da parte degli Stati. Perché non c’è ragion di Stato che tenga nel caso di violazioni dei diritti della persona.

Più liberi, più sicuri, più coesi. E penso alla Carta Sociale Europea contro le disuguaglianze e le povertà, lanciata in Italia, a Torino, nel 1961.

Questi sono risultati impareggiabili della costruzione tenace di una casa comune quale il Consiglio d’Europa. Progresso per centinaia di milioni di cittadine e di cittadini europei, fieri di ritrovarsi sempre più in un unico demos.

Il Consiglio d’Europa è figlio di quella spinta al multilateralismo che caratterizzò gli anni successivi al Secondo conflitto mondiale, insieme al sistema delle Nazioni Unite. Una spinta basata su una considerazione elementare: la collaborazione riduce la contrapposizione, contrasta la conflittualità, aumentando le possibilità di composizione positiva delle vertenze.

Non fu facile imboccare la strada della riconciliazione. Così come non è stato facile giungere alla condivisione di una comune eredità; avere il coraggio di passare, nel rapporto tra gli Stati, dal diritto della forza alla forza del diritto.

Costruire una pace duratura è stato un processo lento e graduale che ha saputo evitare il rischio di una terza guerra mondiale, sfiorato con la guerra di Corea e il blocco di Berlino, e ha saputo passare, in quegli anni lontani, attraverso la regolazione della condizione dell’Austria sotto clausola di neutralità e il superamento della crisi di Cuba.

Quanto la guerra ha la pretesa di essere lampo – e non le riesce – tanto la pace è frutto del paziente e inarrestabile fluire dello spirito e della pratica di collaborazione tra i popoli, della capacità di passare dallo scontro e dalla corsa agli armamenti, al dialogo, al controllo e alla riduzione bilanciata delle armi di aggressione.

E’ una costruzione laboriosa, fatta di comportamenti e di scelte coerenti e continuative, non di un atto isolato. Il frutto di una ostinata fiducia verso l’umanità e di senso di responsabilità nei suoi confronti.

Come ci ricordava Robert Schuman “la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”.

Se perseguiamo obiettivi comuni, per “vincere” non è più necessario che qualcun altro debba perdere. Vinciamo tutti insieme.

L’esempio è stato contagioso, tanto da far diventare Strasburgo la meta obbligata di quanti raggiungevano libertà e indipendenza, per rafforzarle e consolidarle. E’ stato così in diversi casi; ma, naturalmente, per stare insieme occorre rispettare le regole che ci si è dati.

Si giustifica per questa ragione la parentesi della Grecia dopo il colpo di stato militare.

Decenni dopo, i popoli centro-europei, baltici e del Caucaso poterono scegliere, a loro volta, di aderire al Consiglio d’Europa e, con questa decisione, di schierarsi per la salvaguardia dei diritti umani, la vigenza dello Stato di diritto, lo sviluppo della democrazia.

Come ha sottolineato il Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini – intervenendo dinanzi a questa Assemblea esattamente 39 anni fa, il 27 aprile del 1983 – occorre talvolta saper esercitare il “coraggio della rinuncia”, quando la separazione di un Paese membro del Consiglio d’Europa appare necessaria per non tradire l’ispirazione che ha dato vita a questa istituzione.

L’obiettivo hitleriano che condusse alla Seconda guerra mondiale era quello di fare della Germania la potenza prevalente con un ruolo dominante su altri popoli e altri Paesi.

Fu un disegno che coinvolse regimi di numerose altre nazioni – il Regno d’Italia fra queste – e che fu battuto dalla coscienza civile internazionale.

Ma il registro della storia ci ricorda come stabilità e pace non siano garantite una volta per sempre: ce lo testimoniano drammatiche e tristi vicende nei Balcani, nel Caucaso, nel Mar Nero.

La pace non si impone automaticamente, da sola, ma è frutto della volontà degli uomini.

Viviamo oggi, nuovamente, l’incubo – inatteso perché imprevedibile – della guerra nel nostro Continente.

Si pratica e si vorrebbe imporre l’arretramento della storia all’epoca delle politiche di potenza, della sopraffazione degli uni sugli altri, della contrapposizione di un popolo – mascherato, talvolta, sotto l’espressione “interesse nazionale” – contro un altro.

Imperialismo e neo-colonialismo non hanno più diritto di esistere nel terzo millennio, quali che siano le sembianze dietro le quali si camuffano.

Non è più il tempo di una visione tardo-ottocentesca, e poi stalinista, che immagina una gerarchia tra le nazioni a vantaggio di quella militarmente più forte. Non è più il tempo di Paesi che pretendano di dominarne altri.

L’opzione è stata effettuata da tempo con il passaggio delle relazioni internazionali dalla estraneità agli aspetti giuridici alla civiltà del diritto.

Di fronte a un’Europa sconvolta dalla guerra nessun equivoco, nessuna incertezza è possibile.

La Federazione Russa, con l’atroce invasione dell’Ucraina, ha scelto di collocarsi fuori dalle regole a cui aveva liberamente aderito, contribuendo ad applicarle.

La deliberazione di questa Assemblea parlamentare – del Consiglio d’Europa – di prendere atto della rottura intervenuta è coerente con i valori alla base dello Statuto dell’organizzazione, che indica la strada di una unione più stretta delle aspirazioni comuni dei popoli europei.

La responsabilità della inevitabile sanzione adottata ricade interamente sul Governo della Federazione Russa. Desidero aggiungere: non sul popolo russo, la cui cultura fa parte del patrimonio europeo e che si cerca colpevolmente di tenere all’oscuro di quanto realmente avviene in Ucraina.

Non si può arretrare dalla trincea della difesa dei diritti umani e dei popoli.

Si tratta di principi che hanno saputo incarnarsi nella storia della seconda metà del ‘900 e, a maggior ragione, devono sapersi consolidare oggi.

La ferma e attiva solidarietà nei confronti del popolo ucraino e l’appello al Governo della Federazione Russa perché sappia fermarsi, ritirare le proprie truppe, contribuire alla ricostruzione di una terra che ha devastato, è conseguenza di queste semplici considerazioni.

Alla comunità internazionale tocca un compito: ottenere il cessate il fuoco e ripartire con la costruzione di un quadro internazionale rispettoso e condiviso che conduca alla pace.

Un grande intellettuale, Paul Valery – passato attraverso le due guerre mondiali – richiamava i concittadini europei a prendere coscienza di vivere in un mondo “finito”. “Non c’è più terra libera” – scriveva – nessun lembo del globo è più da scoprire.

Se nessuno è più estraneo a nessuno, si interrogava il Presidente Pertini, non è giunto il tempo che gli uomini apprendano a essere in pace con se stessi?

Potremmo oggi aggiungere: in un mondo sempre più interconnesso, nel quale sono sostanzialmente venute meno le distanze, in cui ciascuna persona può comunicare, e sovente comunica, in tempo reale, con interlocutori in ogni parte del mondo, non c’è posto, è anacronistico parlare di sfere di influenza territoriali.

Il contesto internazionale presenta contraddizioni, a partire dalla stessa Federazione Russa, responsabile della violazione di tutte le principali carte definite nell’ambito degli organismi multilaterali, e che si trova paradossalmente a invocare l’intervento dell’Organizzazione Mondiale del Commercio contro le sanzioni imposte dalla comunità internazionale.

Mentre il conflitto ha ulteriormente indebolito il sistema internazionale di regole condivise – e il mondo, come conseguenza, è divenuto assai più insicuro – la via di uscita appare, senza tema di smentita, soltanto quella della cooperazione e del ricorso alle istituzioni multilaterali.

Sembrano giungere a questa conclusione anche quei Paesi che, pur avendo rifiutato sin qui di riconoscere la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, ne invocano, invece, oggi, l’intervento, affinché vengano istruiti processi a carico dei responsabili di crimini, innegabili e orribili, contro l’umanità, quali quelli di cui si è resa colpevole la Federazione Russa in Ucraina, riconoscendo in tal modo il ruolo necessario di quella Corte.

Se la voce delle Nazioni Unite è apparsa chiara nella denuncia e nella condanna ma, purtroppo, inefficace sul terreno, questo significa che la loro azione va rafforzata, non indebolita.

Significa che iniziative, come quella promossa dal Liechtenstein e da altri 15 Paesi, per evitare la paralisi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu vanno prese in seria considerazione.

La guerra è un mostro vorace, mai sazio. La tentazione di moltiplicare i conflitti è sullo sfondo dell’avventura bellicista intrapresa da Mosca.

La devastazione apportata alle regole della comunità internazionale potrebbe propagare i suoi effetti se non si riuscisse a fermare subito questa deriva. Dobbiamo saper scongiurare il pericolo dell’accrescersi di avventure belliche di cui, l’esperienza insegna, sarebbe poi difficile contenere i confini.

Dobbiamo saper opporre a tutto questo la decisa volontà della pace.

Diversamente ne saremo travolti.

Per un attimo, esercitiamoci – prendendole a prestito dal linguaggio della cosiddetta “guerra fredda” – a compitare insieme parole che credevamo cadute ormai in disuso, per vedere se possono aiutarci a riprendere un cammino, per faticoso che sia.

Distensione: per interrompere le ostilità.

Ripudio della guerra: per tornare allo statu quo ante.

Coesistenza pacifica, tra i popoli e tra gli Stati.

Democrazia – come ci insegna il prezioso lavoro della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa – come condizione per il rispetto della dignità di ciascuno.

Infine, Helsinki e non Jalta: dialogo, non prove di forza tra grandi potenze che devono comprendere di essere sempre meno tali.

Prospettare una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità a un quadro di sicurezza e di cooperazione, sull’esempio di quella Conferenza di Helsinki che portò, nel 1975, a un Atto finale foriero di sviluppi positivi. E di cui fu figlia la Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Si tratta di affermare con forza il rifiuto di una politica basata su sfere di influenza, su diritti affievoliti per alcuni popoli e Paesi e, invece, proclamare, nello spirito di Helsinki, la parità di diritti, la uguaglianza per i popoli e per le persone.

Secondo una nuova architettura delle relazioni internazionali, in Europa e nel mondo, condivisa, coinvolgente, senza posizioni pregiudizialmente privilegiate.

La sicurezza, la pace – è la grande lezione emersa dal secondo dopoguerra – non può essere affidata a rapporti bilaterali – Mosca versus Kiiv -. Tanto più se questo avviene tra diseguali, tra Stati grandi e Stati più piccoli.

Garantire la sicurezza e la pace è responsabilità dell’intera comunità internazionale. Questa, tutta intera, può e deve essere la garante di una nuova pace.

Avviandomi alla conclusione, vorrei sottolineare come la possibilità di rivolgermi a voi di persona – potendo così dare manifestazione del bisogno basilare di comunicazione diretta – è sicuramente un vantaggio.

Abbiamo vissuto una lunga fase di difficoltà a causa della pandemia, con momenti drammatici. Il virus non è ancora debellato, ma abbiamo imparato a combatterlo, ad attenuarne gli effetti.

Desidero, in questa sede, rendere omaggio a tutti coloro che, a costo di rischi personali, talvolta con il sacrificio della vita, hanno contribuito a conseguire i risultati di cui oggi  possiamo giovarci.

Penso in primo luogo al personale medico e sanitario, cui va tutta la nostra riconoscenza, ai ricercatori e agli scienziati, ma anche ai molti operatori, volontari, professionisti che a vario titolo ci hanno aiutato a superare questa prova.

Una volta di più abbiamo avuto conferma di quanto valga la cooperazione internazionale. La comunità scientifica internazionale ha operato al di sopra dei confini, scambiando dati, conoscenze risultati di esperienze, avanzamenti di ricerca.

Non poteva esservi richiamo più convincente; e si sperava che questo esempio di collaborazione contro un nemico comune dell’umanità fosse recepito dai governi degli Stati, sospingendo verso la ricerca del dialogo, della condivisione, della cooperazione.

Tutto questo non fa dimenticare che, se oggi possiamo sperare che il peggio sia ormai alle nostre spalle, è grazie al civismo dei nostri concittadini, al senso di responsabilità che hanno manifestato, alla loro collaborazione nelle misure per attenuare la diffusione del virus e nel garantire il successo delle campagne vaccinali. Senza il loro contributo non sarebbe stato possibile sconfiggere, oltre al Covid-19, il virus pernicioso della disinformazione e della sfiducia nella scienza.

Le nostre istituzioni hanno dimostrato capacità di saper reagire rapidamente, le nostre società hanno evidenziato una resilienza rassicurante.

Vorrei manifestare apprezzamento per il contributo, fornito dal Consiglio d’Europa agli Stati membri, affinché la risposta alla pandemia si svolgesse entro ambiti rispettosi dei diritti e delle libertà fondamentali; ponendo sempre al centro la persona umana e la sua insopprimibile dignità.

È un aspetto da non dare mai per scontato, un successo europeo del quale possiamo andare giustamente fieri.

Signore e Signori,

la Repubblica Italiana ha convintamente contribuito alla nascita di questa Organizzazione, alla sua crescita e alla sua piena affermazione, quale punto di riferimento imprescindibile nel sistema multilaterale in difesa dei valori di libertà e di affermazione dei principi dello Stato di diritto.

E’ una funzione che continua a manifestarsi preziosa, alla quale tutti gli organi del Consiglio d’Europa, e gli Stati membri, sono chiamati a concorrere.

E’ quanto abbiamo puntato a ribadire responsabilmente in occasione di questa ottava presidenza italiana del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

La generazione dei fondatori ha saputo edificare, su cumuli di macerie materiali, morali e giuridiche, questa comunità multilaterale, guardando al futuro. Confidiamo di avere custodito fedelmente questo patrimonio; di averlo difeso come un bene prezioso.

Ma se il compito non è esaurito, tocca proprio a noi corrispondere alle sfide di oggi, sviluppandone e attuandone i principi.

Auguri di buon lavoro – quindi – a tutti noi e grazie dell’attenzione.

Luigi BobbaIntervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa
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“La rivincita del pubblico”: Alessandro Barbano discute con Giuliano Amato

La democrazia tra transizione ed emergenze

“La rivincita del pubblico” Alessandro Barbano ne discute con Giuliano Amato, Presidente Corte Costituzionale, già Presidente del Consiglio dei Ministri, Professore emerito Istituto universitario europeo e Università Sapienza di Roma, autore di “Bentornato Stato, ma” (Il Mulino)

 

Luigi Bobba“La rivincita del pubblico”: Alessandro Barbano discute con Giuliano Amato
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Unioncamere avvia l’indagine “Impresa sociale come stai?” sulle nuove imprese sociali italiane

Unioncamere, dopo il trasferimento automatico al Registro unico nazionale del terzo settore (RUNTS) dei dati riguardanti le imprese sociali iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese delle Camere di commercio, ha deciso di avviare una specifica indagine sulle “nuove” imprese sociali, ovvero su quelle realtà che sono nate o si sono iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese dopo l’entrata in vigore del dlgs.112/2017 (riguardante la revisione della normativa in materia di impresa sociale).

Il questionario, dal titolo “Impresa sociale come stai?”intende esplorare le caratteristiche delle “nuove imprese sociali” e il loro approccio con la nuova disciplina del Terzo settore, nonché fare emergere la domanda di formazione e assistenza tecnica a cui potrebbero dare risposta anche le Camere di commercio, avvalendosi per questa attività di ricerca del supporto dell’Associazione Terzjus – Osservatorio giuridico del Terzo settore, della filantropia e dell’impresa sociale e di Italia non profit.

 

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Luigi Bobba: con l’Action Plan UE un cambio di passo

Non è solo un cambio di nome. Se nel decennio passato i programmi e le iniziative della Commissione Europea nel campo dell’economia socialeerano stati ricompresi nella “Social Businnes Initiative”, ora, con il varo – nel dicembre scorso – del “Social Economy Action Plan”, siamo ad un cambio di orientamento culturale, al riconoscimento di soggetti che, nel campo economico ed imprenditoriale, non agiscono solo in forza dello scambio per il guadagno (business), ma sono orientati invece da principi di reciprocità e di solidarietà.

Se l’obiettivo di fondo del Piano d’azione per l’economia sociale è valorizzare e rafforzare un’economia al servizio delle persone, allora per gli Enti del Terzo settore, pur nella varietà delle loro configurazioni giuridiche ed organizzative, si presenta come un’opportunità: rimettersi in gioco per attraversare questo tempo di trasformazione, non subendo gli eventi, ma mettendosi in sintonia con il sentire delle generazioni più giovani.

Il piano prevede, per i prossimi anni, tre importanti azioni: una Raccomandazione del Parlamento Europeo sulla materia; un nuovo Portale informativo e promozionale; un Centro europeo di competenze per l’innovazione sociale. Obiettivi non facili da realizzare, ma decisivi per  vincere la sfida che è stata lanciata. Sulla strada si troveranno due ostacoli da superare: l’assenza nella UE di un perimetro giuridico che individui in modo certo i soggetti dell’economia sociale e la mancanza di strumenti appropriati e universalmente accettati per la misurazione dell’impatto sociale delle misure che verranno finanziate.

Sono due punti sui quali Terzjus – l’Osservatorio giuridico del Terzo settore – ha attirato l’attenzione della Commissione e che sono stati altresì ripresi nel documento finale dell’incontro dei delegati dei Governi all’Economia sociale, riunitisi a di Parigi nel marzo scorso. Certo, non si deve prendere la strada di puntuali e analitiche definizioni giuridiche dei soggetti che compongono il variegato mondo dell’economia sociale; piuttosto – come è stato fatto del Codice del Terzo settore – riconoscerli mediante indicatori circa le loro attività e le modalità di realizzazione delle stesse. In secondo luogo, sarebbe opportuno ripartire dal lavoro fatto dagli esperti del GECES per trovare rapidamente una metrica volta a verificare l’impatto degli interventi a finalità sociale.

Accanto a queste scelte dirimenti, il Terzo settore  italiano – proprio cogliendo l’opportunità del Piano di azione dell’economia sociale – , può meglio definire le sue traiettorie di futuro provando a diventare un vettore decisivo dell’inclusione sociale; a rafforzare il ruolo di sentinella dei territori e delle persone dimenticate; e, infine, ad essere un attore non subalterno dei processi di digitalizzazione dell’economia e della vita sociale. Una bella sfida non solo per il Terzo settore, ma anche per l’intero Paese.

editoriale di Luigi Bobba, presidente di Terzjus, pubblicato a pag. 1 dell’inserto L’Economia Civile di «Avvenire» del 4 maggio 2022

Luigi BobbaLuigi Bobba: con l’Action Plan UE un cambio di passo
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«Il Primo Maggio “battezzato”» di Sara Simone e Luigi Bobba

Il Primo Maggio “battezzato”

di Sara Simone e Luigi Bobba

«Mettere tonaca e berretta al “Primo Maggio”». Questa l’accusa che, a metà degli anni cinquanta del XX secolo, veniva mossa ai lavoratori riuniti nelle Acli, Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, organizzazione che in quegli anni assunse non solo una funzione di mediazione culturale, ma di spinta profetica e popolare, proprio sul tema del Primo Maggio. 

Dalle Acli così rispondevano: 

Si è preteso di fare del Primo Maggio una festa marxista; esso non è nato in camicia rossa. È nato nella lontana America, in ambienti e tra uomini non solo refrattari ma ostili al comunismo: è nato come affermazione del diritto del lavoratore ad un orario meno massacrante, a migliori condizioni per la sua opera. Ed ha continuato a simbolizzare le rivendicazioni degli operai e dei contadini. Soltanto più tardi i comunisti hanno tentato di appropriarsene.

A quel tempo le Acli avevano una loro festa del lavoro – il 15 maggio, giorno della promulgazione nel 1891 dell’enciclica sociale Rerum Novarum di papa Leone XIII –  in concorrenza con il Primo Maggio, celebrato in seguito alla deliberazione del congresso di Parigi della Seconda Internazionale il 20 luglio 1889. In quell’occasione si era proposto di organizzare una manifestazione simultanea in una data stabilita, uguale per tutti i paesi e città, in tutto il mondo, durante la quale i lavoratori potessero chiedere alle pubbliche autorità di contenere per legge entro le otto ore la giornata lavorativa. Come data era stata scelto il Primo Maggio, a memoria della grande manifestazione operaia che tre anni prima, il 1° maggio 1886, a Chicago, era stata repressa nel sangue. Le azioni contro le lotte dei lavoratori che tra il 1867 e il 1887 colpirono Chicago e l’Illinois, avevano generato un moto di grande solidarietà internazionale e internazionalista.

Un Primo Maggio per i cattolici

Risultava difficile per i cattolici trovarsi a proprio agio nei confronti del sindacalismo ispirato dal marxismo, che parlava di lotta di classe e considerava la chiesa fra le forze reazionarie da combattere, senza spazi di mediazione. Fin dai primi anni del novecento il movimento cattolico si confrontava con il sindacalismo socialista e cercava spazi di alterità, tentando di contrastarne la pretesa esclusività sulla festa del Primo Maggio. Quel sano confronto ideale, dagli indubbi risvolti politici, era stato interrotto dal fascismo con la proibizione della celebrazione del Primo Maggio: nel ventennio il festeggiamento dei lavoratori fu anticipato al 21 aprile, per farlo coincidere con il Natale di Roma.

All’indomani della “liberazione” del 25 aprile 1945, il Primo Maggio diventerà in Italia festa di partigiani e lavoratori, di anziani militanti e giovanissimi con nessuna memoria di quella festa, salvo ritrovarsi tutti insieme nelle piazze in un clima di grande entusiasmo. Appena due anni, e il Primo Maggio del 1947, si verificherà in Sicilia la strage di Portella Della Ginestra, vicino Palermo, dove gli uomini del bandito Giuliano fanno fuoco sui braccianti che assistono al comizio, uccidendo 14 lavoratori.

Pur se a fatica, le manifestazioni promosse dalla compagine cattolica riusciranno in alcuni territori ad avere un certo successo e partecipazione degna di considerazione, talora quasi in grado di controbilanciare quella dei movimenti socialisti. Un caso significativo divenne quello dell’area bresciana, dove i gruppi di lavoratori cattolici erano fortemente radicati sul territorio, in particolare nelle campagne e nei borghi rurali. 

Se la città resta sotto l’egida delle forze di ispirazione socialista, in provincia si afferma un Primo maggio “cattolico” che abbandona ogni riferimento alla dimensione del conflitto: la festa di “tutti i lavoratori” celebra la collaborazione, lo sviluppo ordinato, la concordia tra le classi.»

Non durò troppo a lungo questo tentativo di instaurare una pacifica convivenza. «Di lì a qualche decennio, tali divisioni di fondo sarebbero diventate vere e proprie fratture, segnando la storia del sindacalismo italiano». 

Negli anni cinquanta, il Primo Maggio subisce l’influenza del nuovo quadro politico: terminata l’alleanza tra i tre partiti di massa (Dc, Pci e Psi) e De Gasperi, si avvia la nuova fase dei governi centristi con l’appoggio della destra parlamentare: una frattura che coinvolge anche il fronte sindacale e la festa dei lavoratori, che diventa terreno di scontro, un’occasione per misurare i rapporti di forza.

Sarà merito delle Acli se, a partire dal 1955, il mondo cattolico si sarebbe aperto alla festa dei lavoratori, sentita fino ad allora come tradizione prevalentemente “socialista”, apportandovi il contributo originale della cultura cristiana. In quell’anno si calcolavano in 65, le ricorrenze del Primo Maggio, dalle quali i lavoratori cristiani si erano per lo più tenuti in disparte. 

Già il 1° maggio 1954 un piccolo gruppo di aclisti, in vista dell’anno in cui ricorreva il decennale dalla fondazione delle loro associazioni, aveva partecipato alle manifestazioni dei lavoratori a Roma; l’anno dopo, le Acli erano pronte a lanciare il loro “Primo Maggio cristiano” con il motto: «Con Cristo per la classe lavoratrice». I lavoratori cattolici si riunirono a Roma giungendo da tutta Italia: trenta treni speciali erano stati approntati per l’occasione e oltre 2500 pullman portarono nella capitale una colorata folla in costumi folcloristici rappresentanti dei territori di provenienza o in abiti da lavoro, con vessilli, bandiere, cartelli e striscioni.

Svettava un grande globo di cartapesta attraversato dalla scritta «Lavoratori di tutto il mondo unitevi nell’insegnamento di Cristo», che declinava dal punto di vista cattolico il motto socialista per eccellenza, «Proletari di tutti i Paesi, unitevi!», derivato dalla chiusa del Manifesto del partito Comunista del 1848. Il cardinale Adeodato Giovanni Piazza celebrò la messa del mattino per tutti gli aclisti convenuti in piazza del Popolo, dall’altare allestito su una grande incudine: scelta di forte impatto simbolico. Nel pomeriggio, una delegazione delle Acli depose una corona sulla tomba del Milite Ignoto e poi il corteo si mosse verso il Vaticano. Durante l’udienza pontificia organizzata in piazza san Pietro per l’occasione, papa Pio XII annunciò l’istituzione della festa liturgica di san Giuseppe artigiano, proclamato protettore dei lavoratori. Erano più di 200.000 gli aclisti convenuti a Roma per l’occasione, accompagnati da un gruppo di vescovi, tra i quali Giovanni Battista Montini, al tempo arcivescovo di Milano. 

Ecco le parole che Pio XII pronunciò quel Primo Maggio, parlando alle Acli:

Fin dalle origini, Noi mettemmo le vostre associazioni sotto il potente patrocinio di san Giuseppe. Non vi potrebbe essere infatti miglior protettore per aiutarvi, per far penetrare nella vostra vita lo spirito del Vangelo. Come invero allora dicemmo, dal cuore dell’Uomo-Dio, Salvatore del mondo, questo Spirito affluisce in voi e in tutti gli uomini, ma è pure certo che nessun lavoratore ne fu mai tanto perfettamente e profondamente penetrato quanto il padre putativo di Gesù, che visse con lui nella più stretta intimità e comunanza di famiglia e di lavoro. Così, se voi volete essere vicini a Cristo, noi anche oggi vi ripetiamo: Ite ad Joseph Andate da Giuseppe!

Sì, diletti lavoratori, il papa e la chiesa non possono sottrarsi alla divina missione di guardare, proteggere, amare soprattutto i sofferenti, tanto più cari quanto più bisognosi di difesa e di aiuto,  siano essi operai, o altri figli del popolo. Questo dovere e impegno, noi, vicario di Cristo, desideriamo di altamente riaffermare, qui, in questo giorno del Primo Maggio, che il mondo del  lavoro ha aggiudicato a sé come propria festa con l’intento che da tutti si riconosca la dignità del lavoro e che questa ispiri la vita sociale e le leggi, fondate sull’equa ripartizione di diritti e doveri.

Concludeva Pio XII:

In tal modo – accolto dai lavoratori cristiani e quasi ricevendo il crisma cristiano -, il Primo Maggio, ben lungi dall’essere risveglio di discordie, di odio e di violenza, è e sarà un ricorrente invito alla moderna società per compiere ciò che ancor manca alla pace sociale. Festa cristiana, dunque, come giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani nella grande famiglia del lavoro. Affinché vi sia presente questo significato, e in certo modo quale immediato contraccambio per i numerosi e preziosi doni, arrecatici da ogni regione d’Italia. Amiamo di annunziarvi la nostra determinazione di istituire – come di fatto istituiamo – la festa liturgica di san Giuseppe Artigiano, assegnando ad essa precisamente il giorno Primo Maggio.

Con enfasi Dino Penazzato, l’allora presidente delle Acli, definì quel giorno «il grande battesimo cristiano del Primo maggio». Il discorso di Pio XII ricordò quando la Chiesa aveva ufficialmente riconosciuto le Acli, nell’udienza dell’11 marzo 1945, ponendole sotto il patrocinio di san Giuseppe, indicato come figura esemplare per i lavoratori cristiani. Le Acli fecero sfilare davanti al pontefice i simboli del lavoro dell’uomo, in un clima di solennità, per quella che era una giornata memorabile per la storia dell’associazione. 

In polemica rispetto all’anticlericalismo diffuso in quegli anni di dure lotte operaie e di aspre polemiche che dividevano le associazioni sindacali italiane, le Acli erano incoraggiate dal pontefice a perseverare nel loro attivismo, purché rimanessero fedeli al servizio della causa cattolica e entro gli insegnamenti dottrinali della Chiesa. 

Il pontefice ammoniva:

Da lungo tempo purtroppo il nemico di Cristo semina zizzania nel popolo italiano, senza incontrare sempre e dappertutto una sufficiente resistenza da parte dei cattolici. Specialmente nel ceto dei lavoratori esso ha fatto e fa di tutto per diffondere false idee sull’uomo e il mondo, sulla storia, sulla struttura della società e della economia. Non è raro il caso in cui l’operaio cattolico, per mancanza di una solida formazione religiosa, si trova disarmato, quando gli si propongono simili teorie; non è capace di rispondere, e talvolta persino si lascia contaminare dal veleno dell’errore.

Contro l’«umanesimo laico» e il «socialismo purgato dal materialismo», la Chiesa appoggiava il programma delle Acli «che esige la partecipazione effettiva del lavoro subordinato nella elaborazione della vita economica e sociale della Nazione e chiede che nell’interno delle imprese ognuno sia realmente riconosciuto come un vero collaboratore». Era l’occasione per dare una nuova prospettiva alla festa dei lavoratori: 

Questo dovere ed impegno noi, vicario di Cristo, desideriamo di altamente riaffermare, qui, in questo giorno del 1° maggio, che il mondo del lavoro ha aggiudicato a sé, come propria festa, con l’intento che da tutti si riconosca la dignità del lavoro, e che questa ispiri la vita sociale e le leggi, fondate sull’equa ripartizione di diritti e di doveri.

Il Primo Maggio veniva così “consacrato”: 

In tal modo accolto dai lavoratori cristiani, e quasi ricevendo il crisma cristiano, il 1° maggio, ben lungi dall’essere risveglio di discordie, di odio e di violenza, è e sarà un ricorrente invito alla moderna società per compiere ciò che ancora manca alla pace sociale. Festa cristiana, dunque; cioè, giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglia del lavoro.

Anche L’Osservatore Romano diede ampio spazio agli eventi di quella giornata titolando in prima

pagina: Il Sommo Pontefice alle Acli e ai lavoratori di tutti i popoli. La presenza di Cristo e della Chiesa nel mondo operaio – Il 1° Maggio solennità cristiana. Alla notizia furono interamente dedicate tre delle sei pagine dell’edizione del giorno, una delle quali completamente occupata dal racconto fotografico dell’evento. 

L’eco di quanto era avvenuto in piazza San Pietro trovò ampio spazio sulle pagine di tutti i quotidiani nazionali. Anche Avanti! diede una sua lettura di quello che veniva comunque interpretato come un positivo riconoscimento che tutti i lavoratori, in fondo, erano uniti nelle loro aspirazioni di giustizia sociale: nei cartelli e striscioni che gli aclisti esponevano «risultava chiaramente come in alcun modo le esigenze, le istanze che pongono i lavoratori cattolici, siano diverse da quelle che, in un’altra piazza di Roma, avanzavano gli altri lavoratori nel comizio della Cgil».

Il punto di vista del mondo degli industriali era diverso e vedeva nel Primo Maggio delle Acli la volontà di porsi come linea distinta e alternativa rispetto a quella socialista. Il Giornale d’Italia, in

quegli anni di proprietà di Confindustria, riportava le dichiarazioni degli «ambienti direttivi» delle Acli, che presentavano la manifestazione romana come un segnale dell’attivismo cattolico in prima linea nella difesa degli interessi e dei diritti dei lavoratori, sfilando alle «forze marxiste» il monopolio sul mondo del lavoro. 

Non a caso l’attività delle Acli venne posta sotto la protezione di san Giuseppe, figura che doveva essere di esempio non solamente come lavoratore operoso e sollecito sostegno della famiglia, ma anche per le sue virtù di pazienza, mitezza, umiltà. Un modello che voleva contrastare quelli che su altri fronti erano i richiami allo scontro duro e alla “lotta di classe”, dai quali la chiesa tentava di tenere lontani e distinti i lavoratori cattolici.

La verità è che, con la manifestazione del Primo Maggio 1955, tenutasi prima in piazza san Pietro con la celebrazione dell’Eucarestia e poi in piazza del Popolo con una grande adunata popolare con più di 50.000 persone, le Acli avevano stabilito che il lavoro – la sua difesa e promozione – non era monopolio della tradizione socialista e successivamente anche di quella comunista, ma trovava piena legittimazione nella dottrina sociale della chiesa e nelle molte opere che le stesse Acli promuovevano per elevare le condizioni di vita della classe lavoratrice.

Due dedicazioni e una statua 

In quanto al contenuto strettamente liturgico del Primo Maggio religioso, non furono le Acli a scegliere di dedicare la festa a san Giuseppe. Per rimarcare la concezione cristiana del lavoro, la figura di riferimento individuata dagli aclisti era stata quella di Gesù negli anni giovanili, quando a Nazareth condivideva con Giuseppe, padre putativo, la dimensione quotidiana del lavoro di falegname. Gli aclisti intendevano consacrare il 1° Maggio a “Gesù lavoratore”, al “Cristo divino lavoratore”, in un’immagine che unificasse il lavoro umano e la partecipazione del lavoratore all’attività creativa di Dio. In questo erano fedeli alla vocazione antica delle Acli come luogo di formazione e di opere sociali a favore delle persone più deboli e indifese, strumento di promozione del lavoro quale valore essenziale di una comunità civile. 

D’altro lato, ancor prima del grande Primo Maggio 1955, proprio Pio XII aveva accolto gli aclisti nella basilica di san Pietro, il 14 maggio 1953, dichiarando ai lavoratori il suo «tenero affetto, simile a quello che nutriva e nutre per essi Gesù, il divino Lavoratore di Nazareth». 

Di fatto, i militanti e dirigenti aclisti coglievano la contraddizione tra le due pronunce del papa, non riuscendo ad accettare la sua opzione del 1955, con l’accantonamento liturgico di Gesù Divin Lavoratore. 

Per il Primo Maggio del 1956, su iniziativa delle Acli milanesi, idearono qualcosa di straordinario che resterà nell’iconografia non solo dell’associazione ma dell’intero paese. L’organizzazione si preparò con il consueto spirito filiale e disciplinato, a celebrare per la prima volta la festa dei lavoratori sotto l’egida di san Giuseppe artigiano, però, quando si trattò di commissionare la statua da presentare nel primo Primo Maggio a contenuto di festa religiosa, come simbolo dell’impegno aclista e di tutti i lavoratori cattolici, fu scelta la figura di Cristo divino lavoratore. La piccola scultura, alta 135 cm, fu realizzata in bronzo dorato da Enrico Nell Breuning e portata in piazza del Duomo a Milano il 1° maggio 1956 dove venne benedetta dall’arcivescovo Montini.

La piazza era gremita e le Acli avevano organizzato con grande solennità quella giornata. La festività liturgica fu accompagnata dai discorsi del presidente del Consiglio Antonio Segni e del presidente centrale delle Acli Dino Penazzato, che colse l’occasione per ribadire la sua linea delle “tre fedeltà”. Uno spirito più internazionale fu dato dalla presenza di 23 delegati stranieri, fra i quali il delegato dell’Azione Cattolica Operaia francese, un lavoratore del Camerun, rappresentanti dalla Cina e dal Vietnam. Era quella che con una certa pomposità il Corriere della Sera avrebbe definito «la Prima Internazionale cristiana». 

Un videomessaggio di Pio XII garantì la vicinanza e il sostegno della Chiesa alle Acli. Dopo la messa e il ricordo dei caduti in guerra e sul lavoro, venne benedetta la statua bronzea che ufficialmente rappresentava Cristo divino lavoratore. Le Acli intendevano donare la statua a papa Pio XII, per celebrare l’ottantesimo compleanno che il pontefice aveva compiuto il 2 marzo di quel 1956. Per questo, la scultura fu subito portata in elicottero a Linate, trasferita in aereo a Ciampino e da lì di nuovo in elicottero al sagrato della basilica di san Pietro. Il volo della statua sui cieli di Roma fu un evento memorabile e venne ripreso anche dalla televisione quasi fosse un segno dei tempi.

Nonostante la pioggia scrosciante, gli aclisti attesero per ore, con pazienza, l’arrivo della statua. Il “Divino Lavoratore” fu salutato dalla folla e dal papa, che si affacciò dalla finestra del suo studio per impartire la benedizione alla folla radunata per la festa cristiana dei lavoratori. Il giorno successivo la statua venne benedetta da Pio XII, che la salutò inizialmente come effige di san Giuseppe. Quando l’assistente ecclesiastico centrale degli aclisti, don Luigi Civardi, obiettò che si trattasse in realtà di una statua che rappresentava Gesù, venne alla fine accolto dal pontefice il titolo di “divino lavoratore”, che salvava l’aspetto divino e non ne esaltava quello “classista” che la semplice dizione di “Gesù lavoratore” evocava, con gran timore di teologi e liturgisti del tempo.

Non è difficile sentire in quella “duplice lettura” della stessa statua la sintesi ermeneutica di un dibattito complesso: da una parte il cattolicesimo popolare rappresentato dalle Acli che vedeva in essa con favore ed entusiasmo la raffigurazione di Gesù Lavoratore; dall’altra i vertici della chiesa che mostravano perplessità su quell’identificazione e preferivano la più tradizionale e rassicurante versione del san Giuseppe artigiano.

Nel mezzo di quel dibattito, accadde che il 2 maggio 1956 la delegazione internazionale guidata dal presidente delle Acli Dino Penazzato, in udienza dal papa per la benedizione della statua di controversa identificazione, si ritrovasse ad assistere alla benedizione papale per l’immagine di  san Giuseppe artigiano. Papa Pacelli, evidentemente, restava convinto della sua posizione.

La chiesa si muoveva cautamente, ma si muoveva. E anche dalle fila socialiste si apprezzava l’apertura. Il sindacalista e deputato del Psi Fernando Santi scriveva dalle colonne di Avanti!:

Il fatto che i lavoratori cattolici – i lavoratori cioè che ispirano la loro azione sociale agli insegnamenti della Chiesa – festeggiano anch’essi e ufficialmente il Primo Maggio – considerato nel passato recente e remoto come manifestazione dalla quale rifuggire – suggerisce alcune considerazioni che acquistano un particolare sapore nell’attuale momento. In primo luogo viene spontanea la constatazione della inarrestabile evoluzione dei tempi e del sia pur lento e cauto adeguarsi ad essi della Chiesa. In sostanza le idee giuste ed umane – come quella della liberazione del lavoro da ogni sfruttamento, idea che caratterizza, che dà significato appunto alla festa internazionale del lavoro – camminano forte. Camminano anche con le ali degli angeli e le aureole dei santi. Questo vuol dire che si accorciano le distanze fra i lavoratori cattolici ed i lavoratori che militano nelle organizzazioni di classe, e che sempre più si fa strada la consapevolezza della identità degli interessi economici e sociali contro i quali è schierato unito il chiuso mondo dell’egoismo e del privilegio. […] In sostanza, vogliamo le stesse cose, che si riassumono in una condizione umana di vita per gli operai, per i contadini, per gli impiegati, che salvaguardi ed esalti la dignità e la personalità del lavoratore […].

L’edizione milanese di Avanti! del 3 maggio 1956, apriva con l’annuncio in prima pagina: Nella piazza del Duomo di Milano si è aperto il dialogo tra C.G.I.L. e A.C.L.I., lasciando intendere che il popolo delle Acli era attratto da spirito di unione con i lavoratori militanti «nei partiti e nei sindacati di classe» nonostante la «strana favola» raccontata da Penazzato, che invitava i lavoratori tutti a confidare nella guida della chiesa che voleva dare nuovo spazio di speranza alle loro aspirazioni. Il giornale socialista sosteneva che erano i lavoratori cattolici a doversi liberare «dalle ipoteche della Confintesa sul loro stesso movimento» e dalle pericolose aperture verso destra della Democrazia Cristiana.

Si comprende, quindi, la cautela della Chiesa e della presidenza Acli, che non volevano rischiare fraintendimenti e strumentalizzazioni. Il messaggio del pontefice aveva chiaramente ribadito che il dovere e la ragion d’essere delle Acli dovevano essere indirizzati prioritariamente a diffondere il messaggio cristiano di amore e giustizia, non a porsi in concorrenza con altri o a cercare altre vie di solidarietà di categoria. La statua del “Cristo lavoratore” donata al papa doveva simboleggiare questa prospettiva, il che spiega perché sarebbe stata destinata per un periodo alla parrocchia romana intitolata a “Gesù Divino Lavoratore”, nella chiesa voluta e finanziata delle Acli, costruita a piazza della Radio, a meno di un chilometro dall’attuale sede nazionale degli aclisti in via Marcora, dove la statua avrebbe poi trovato definitiva sede.

La singolare storia della statua dai due volti si era allungata di ulteriori capitoli. In occasione del cinquantenario di fondazione dell’Associazione, la statua, caduta nell’oblio, venne tratta da un polveroso scantinato della sede nazionale delle Acli. Il Primo dell’anno successivo, venne portata ancora una volta in piazza san Pietro, dove  Giovanni Paolo II  – il papa che era stato lui stesso un lavoratore – aveva celebrato la messa di fronte a più di 50.000 fedeli, invitando le lavoratrici e i lavoratori cristiani a restare fedeli all’originaria vocazione di promozione della dignità della  persona e di testimonianza del Vangelo .

Dieci anni dopo, nel 2005, sempre il Primo Maggio, la statua, ormai simbolo aclista per eccellenza, sarebbe tornata in piazza San Pietro per le celebrazioni del 60° anniversario della fondazione, alla presenza di papa Benedetto XVI. Alla recita del Regina Coeli  da parte di papa Benedetto XVI, da poco eletto, le Acli portarono la statua sopra un baldacchino. Il papa salutò con calore le Acli, chiedendo di non dimenticare le persone che erano senza lavoro, in particolare i giovani.

Il 23 maggio 2015, nel corso dell’incontro con le Acli in aula Paolo VI, papa Francesco è tornato a benedire la statua, che le Associazioni Cristiane dei Lavoratori erano tornate a presentare come statua di Cristo lavoratore e non di san Giuseppe artigiano. 

In piena pandemia, papa Francesco ha accolto la richiesta del presidente aclista Roberto Rossini di ospitare la statua, così ricca di mistero e di storia, ma anche di un’istanza profonda riguardante la teologia del lavoro, durante la messa celebrata alle 7 del mattino del Primo Maggio 2020 presso la cappella di santa Marta in Vaticano. 

La statua, che era stata posta a fianco all’altare, avrebbe ispirato, poco più di un mese dopo, l’8 giugno, la lettera che il papa ha indirizzato al vicario generale per la diocesi di Roma, il cardinale De Donatis. Vi stabiliva l’istituzione del fondo “Gesù Divino Lavoratore” a sostegno, tramite Caritas diocesana, di tutte le persone colpite dalla crisi economica degli ultimi anni, in particolare per «coloro che rischiano di rimanere esclusi dalle tutele istituzionali e che hanno bisogno di un sostegno che li accompagni, finché potranno camminare di nuovo autonomamente», un fondo che – come lo spirito che aveva fondato il Primo Maggio cristiano – ha scelto la figura del “divino lavoratore” «per richiamare la dignità del lavoro».

Il Primo Maggio del lavoratore cristiano, oggi

Nel frattempo, anno dopo anno, in Italia la festa dei lavoratori è diventata sempre più patrimonio comune e indiscusso. Dal 1990 i sindacati confederali della Cgil, Cisl e Uil hanno istituito la bella tradizione del “concertone” del Primo Maggio. Si tiene ogni anno a Piazza San Giovanni a Roma, con la partecipazione di molti gruppi musicali e cantanti che danno vita ad uno spettacolo trasmesso in diretta televisiva dalla Rai.

Va riconosciuto alle Acli il merito storico di aver favorito l’incontro fra la cultura socialista del movimento operaio e la cultura cattolica del lavoro, radicata nella dottrina sociale della chiesa. Come si è visto, furono in particolare le Acli di Dino Penazzato, caro alla memoria di tutti gli aclisti come “il presidente delle tre fedeltà” (alla classe lavoratrice, alla democrazia e alla chiesa), a creare le condizioni storico-culturali per fare del Primo Maggio la festa condivisa da tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro appartenenza culturale, di tradizione socialista, comunista e cattolica.

Bibliografia

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Santi F. Santi F., Abbiamo portato avanti il dialogo con i cattolici, in Avanti!, a. LX, n. s. n. 104, 1 maggio 1956

Spadaro A., Sereni S.,  A partire da Gesù lavoratore, in La Civiltà Cattolica, quaderno 4081, 2020

Weldemariam H., Tudini F., Nanni A., Raccontare le Acli, in Azione sociale, n. 5, 2005

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